Tra le voci più importanti dell’opposizione turca vi è quella di Erdogan, Asli Erdogan: la celebre scrittrice arrestata nel 2016 con l’accusa di propaganda terroristica, appartenenza ad organizzazione terroristica, incitazione al disordine. Collaborava con un giornale filo-curdo che seguiva gli scontri e gli incidenti registrati nel sud-est del paese. Ora è in esilio in Germania. In patria è sotto processo, in attesa di una sentenza. Pierre Ograbek l’ha incontrata e le ha chiesto come sta cambiando la società turca, ad oltre un anno e mezzo dal tentato colpo di Stato e dall’ondata repressiva che ne ha fatto seguito.
Un’ondata repressiva di questo tipo che tracce lascia nella società turca? In che modo sta cambiando il comportamento della gente?
"Ho scritto alcuni articoli su questo tema. Uno portava il titolo “In un edificio in fiamme”. È la storia di un narratore imprigionato in un edificio che sta bruciando. Non si vuole mai capire o valutare o credere che vi sia un pericolo: non si vede mai il fuoco, non si sa se sia più su, oppure sotto, ma ad essere pericoloso è il fumo. Avvelena pian piano. Ad uccidere è ciò che è dentro di te, non le fiamme. Una metafora per la Turchia di oggi. Il regime totalitario trasforma gli individui in molti modi diversi, impensabili. Diventi pauroso, paranoico, rinneghi te stesso. Ci sono migliaia, milioni di traditori che se la prendono coi propri vicini. Nei giornali si trovano degli appositi numeri telefonici da chiamare se si vedono dei terroristi. Ricevono migliaia di chiamate; se qualcuno è arrabbiato col vicino dice che è un terrorista. Il Governo supera tutte le barriere etiche. E la gente lo segue".
Ci può fare un esempio?
"Una rappresentante del partito filo-curdo HDP ha perso la propria madre mentre era in prigione. È alauita e curda. Ha ricevuto il permesso di andare al funerale. Il cimitero è stato preso d’assalto da una folla inferocita che diceva: “Non vogliamo un’alauita o una curda o un’armena in questo cimitero. Se seppellite il cadavere lo facciamo a pezzi”. Questo è il superamento di una barriera etica. Il rispetto per un morto, per un’anziana, per una madre… sono valori importanti nella società turca che vengono schiacciati. È un grande errore pensare che lo Stato opprima la gente. No: lo Stato avvia un meccanismo e poi è la gente che opprime la gente".
La Turchia ha vissuto diverse ondate di repressione nei decenni scorsi, in particolare quando il forte esercito interveniva per tutelare l’eredità dello Stato laico ideato da Kemal Atatürk, ritenuto il padre della Turchia moderna. C’è in qualche modo una continuità con la repressione attuale?
"La Turchia è sempre stato un paese dalle tendenze autoritarie. L’esercito e lo Stato sono sempre stati oltremodo forti rispetto agli individui, alla società. L’esercito non si è mai allontanato dal potere fino agli ultimi due decenni. Solo con il regime di Erdogan se n’è tornato nelle sue caserme, ma l’ideologia dei militari è rimasta: oggi la Turchia è molto più militarizzata rispetto a quando ero bambina. In qualche modo i due regimi militari sotto i quali ho vissuto erano migliori rispetto a quello attuale".
In che senso?
"Non sono l’unica a dirlo: anche i prigionieri dell’epoca dicono che i tribunali delle giunte militari erano migliori, i giudici avevano un po’ di rispetto per le procedure legali. Una giunta vede le cose in bianco e nero, è un carro armato che schiaccia tutto quel che vede come ostacolo. Però sai come reagisce questo carro armato, sai chi sarà il prossimo e perché. Ora invece non sai se sarai arrestato domani, oppure mai, con quale accusa, per quanto tempo. È totalmente arbitrario. È spaventoso, non c’è una razionalità che ti permette di capire. Prima si torturava di nascosto, ora si distribuiscono alla stampa le foto di golpisti con la testa schiacciata, col corpo insanguinato. Vengono mostrate con fierezza. È una tragedia morale. Ogni tanto guardo la Turchia e mi dico: “Non possiamo essere così malvagi!”. Ho letto molto sulla Germania nazista e non ho mai capito come fosse possibile. Ora capisco meglio come la gente possa seguire così ciecamente e volentieri un leader".
Questo regime che lei definisce autoritario si fissa però dei limiti?
"Ora stiamo passando da un regime pienamente autoritario ad uno totalitario. Credo non sia mai capitato finora in Turchia. Un uomo che decide tutto... Oltre 700 decreti sono stati adottati in questa fase di emergenza. La Turchia è stata governata tramite decreti, non tramite le leggi".
In che modo lei crede sia possibile bloccare questa tendenza che lei definisce totalitaria?
"È sempre più difficile: sempre più voci vengono messe a tacere, anche un lieve sospiro viene percepito come una minaccia. Un esempio è l’associazione dei medici: ha lanciato una petizione che definisce sacra la vita umana e si oppone a qualsiasi guerra. Per questo motivo l’associazione è stata presa d’assalto dalla Polizia ed i medici portati in prigione. Questo non capitava nemmeno sotto la giunta militare. Sono rimaste pochissime persone libere di esprimersi. E lo fanno assumendosi rischi molto grandi".
Lei ha perso la speranza? Non ci sono alternative per la Turchia?
"Sto cercando la speranza nella mia disperazione. In molti, attorno a me, dicono che tutto ciò deve finire. E quando si chiede: come? …nessuno ha una risposta chiara. L’opposizione è profondamente divisa. Anche se la maggioranza decide che il presidente se ne deve andare risulta così facile modificare le schede di voto! Come è possibile trovare una via d’uscita? Spero che non si scelga la violenza per attaccare il partito al potere: ci sarebbero ancor più massacri ed uno stato di guerra. Le vie democratiche sono chiuse… cosa può capitare?"
Lei ha sempre raccontato apertamente quanto traumatica sia stata questa sua esperienza in prigione. Che impatto ha avuto sulla sua creatività?
"È una domanda molto difficile. Spesso chiedo agli altri: “Sono cambiata?”. E mi rispondono: “Certo”. È molto doloroso sentirlo. Impossibile restare la stessa persona. L’effetto dura per tutta la vita, ci vuole tempo per scoprirlo. I traumi possono anche essere fonte di creatività, in particolare nella scrittura. Ma c’è un limite, non tutti i traumi possono essere trasformati in forme d’arte. Ci vuole tantissimo impegno, energia, digestione, buona volontà. Non so se ne sia in grado ora".
Per il momento non sente un particolare slancio, un desiderio di sfogarsi attraverso la scrittura?
"Per nulla, al contrario: sto diventando sempre più riluttante a parlare della prigione. Anche durante degli incontri formali io parlo per 5 minuti, sembra facile, però la notte precedente non dormo. E poi sento il mio corpo che va a pezzi. Trattandosi di un trauma così recente… non è facile, non penso di essere così forte".
Cinicamente possiamo dire che nel suo caso la repressione ha avuto successo, anche se lei è libera in esilio - in attesa di una sentenza in patria nei suoi confronti?
"Non penso. Il loro scopo non era impedirmi di scrivere, a loro non importa. È così il regime attuale: sono dei vandali, dei barbari. Quello che vogliono è cancellare la mia esistenza, la mia letteratura, il mio lavoro di opinionista. E nascondere sotto il tappeto ciò che capita a Cizre, nelle zone curde. Ma qui credo che falliscano completamente: prima della prigione venivo tradotta in 14 lingue, ora in almeno 20 lingue. Il numero di persone a cui mi rivolgo si è moltiplicato per dieci. Volevano nascondere ciò che capita a Cizre e invece ora lo stanno mostrando a tutto il mondo. Un enorme fallimento. Però sono stata una scelta perfetta per spaventare la società turca. Molti si sono detti: “Cosa capiterà a noi se ora arrestano Asli Erdogan?”. Uccidere un piccione solleva più orrore che ammazzare un’aquila o un falco. Nel mio caso è stato come uccidere un piccolo passero".
Pierre Ograbek