Ratko Mladic perderà presto, con ogni probabilità, l’ultima possibilità di non trascorrere in carcere i giorni che gli restano fino alla fine della vita. La condanna per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità inflittagli il 22 novembre del 2017 potrebbe addirittura essere aumentata: l’ufficio del procuratore spera infatti che l’ex comandante militare dei serbi di Bosnia venga riconosciuto colpevole di genocidio non solo per la liquidazione di oltre ottomila musulmani dopo la caduta dell’enclave di Srebrenica (luglio 1995) come già stabilito in primo grado, ma anche per i massacri di non serbi nelle città di Foca, Kotor Varos, Prijedor, Sanski Most e Vlasenica, all’inizio del conflitto nel 1992. E’ l’unico degli undici capi di imputazione per il quale l’accusa, tre anni fa, ha fallito. Il genocidio è un crimine difficile da provare: oltre alla distruzione sistematica, totale o parziale, di una popolazione occorre dimostrare l’intenzione degli esecutori di voler cancellare dalla faccia della terra il popolo a cui appartengono le vittime. Chi si difende solitamente afferma che c’era una guerra (tutti i genocidi del XX secolo sono avvenuti nel contesto di guerre) e che in guerra si uccide e si viene uccisi. Mladic potrebbe dunque scamparla di nuovo, per quel capo di imputazione, ma difficilmente per gli altri. Lo sanno certamente anche i suoi legali, che hanno tentato ancora un’altra volta di rinviare l’udienza con vari motivi.
Fu proprio l’indignazione per le immagini da Prijedor di uomini emaciati rinchiusi nei campi a dare la spinta definitiva per la creazione, nel 1993, del tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. Ma quella corte ha chiuso da quasi tre anni, e la condanna di Mladic è stata il suo ultimo atto importante (senza dimenticare un’altra condanna, quella del collega croato di Mladic, Slobodan Praljak, che si uccise in aula ingerendo veleno). Nella tribuna del pubblico, tre anni fa, eravamo in tanti, compreso l’uomo la cui immagine pelle ed ossa dietro un filo spinato aveva fatto, venticinque anni prima, il giro del mondo. Mladic ebbe un’intemperanza e il presidente lo espulse prima della lettura del verdetto. Questa volta la pandemia terrà lontani tutti, giornalisti e pubblico. Anche la corte non è più la corte di allora, ma una rota di giudici pagati part-time che si occupano degli ultimi scampoli, come questo appello o la sorveglianza dei condannati ancora in carcere. Gli ultimi scampoli della storia.
A chi scrive è capitato qualche anno fa di visitare a Sarajevo un museo dedicato alla guerra, quella stessa che da giovane aveva vissuto come giornalista; di trovarci, per caso, una comitiva di giovani del posto, tutti nati dopo la fine del conflitto, e di sentire la loro insegnante indignarsi per quanto poco ne sapessero (“ma davvero i genitori non vi hanno spiegato nulla?”, diceva la prof). I figli di quella tragedia (ma non la figlia di Mladic, suicida nel 1994, molti dicono perché non sopportava più di essere la figlia di Mladic) sono diventati adulti, hanno figli a loro volta. Quelli che partirono sono cresciuti con noi, sono parte di noi, praticamente indistinguibili, in Svizzera e nei molti altri posti dove il vento della storia li ha portati. Una lavora nell’ufficio di un consigliere federale. La storia è passata, e anche se le sue conseguenze sono ben lontane dall’essere state cancellate, il sipario è calato da tempo. La sentenza di appello, quale che sia, non lo risolleverà.
Tomas Miglierina