Analisi

Maidan, una narrazione che cambia a seconda della prospettiva

Dieci anni fa le proteste di piazza a Kiev e la svolta filo occidentale - Zelensky paventa una nuova rivoluzione orchestrata dalla Russia

  • 22 novembre 2023, 07:08
  • 22 novembre 2023, 07:08
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Una foto scattata a Kiev 10 anni fa

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Di: Stefano Grazioli 

Il 21 novembre del 2013 cominciarono nel centro di Kiev, in Piazza dell’indipendenza (Maidan) le proteste contro la decisione del presidente Victor Yanukovich di non sottoscrivere con l’Unione Europea l’Accordo di associazione che avrebbe avvicinato l’ex repubblica sovietica a Bruxelles. La parte economica dell’intesa era stata parafata oltre un anno prima, mentre quelle politica era bloccata a causa dell’incarcerazione di Yulia Tymoshenko, ex premier accusata di abuso d’ufficio. L’Ue aveva chiesto la liberazione dell’eroina della rivoluzione arancione del 2004 come precondizione per la firma dell’Accordo. A Kiev si sapeva che Yanukovich non avrebbe ceduto e il fallimento del vertice di Vilnius, in Lituania, dove avrebbe dovuto essere siglata l’intesa, era programmato. Quando arrivò l’ufficialità, iniziarono le manifestazioni di piazza.

Euromaidan e la svolta filo-occidentale

Contro il presidente e il governo del premier Mykola Azarov, nelle proteste che interessarono la capitale e i maggiori centri nell’ovest del paese, si schierarono l’opposizione, guidata dalla troika formata dai leader dei partiti in parlamento, vale a dire Arseni Yatseniuk, Vitaly Klitschko e Oleh Tiahnibok, gran parte della società civile, una fetta delle élite politico-economiche, uno si tutti l’oligarca Petro Poroshenko, le cancellerie occidentali, presenti con vari rappresentanti sin dal mese di dicembre a Maidan in supporto dei manifestanti, e anche gruppi estremisti di destra, come Pravy Sektor. Ogni tentativo di compromesso politico fallì, il governo fece uso della forza, la piazza insorse, mentre Russia da una parte e Occidente dall’altra si stavano preparando al cambio di regime. Il bagno di sangue del 19-21 febbraio del 2014 si concluse in realtà con la sottoscrizione di un accordo tra Yanukovich e il trio dell’opposizione, controfirmato dai ministri degli esteri di Francia, Germania e Polonia, che però non venne messo in pratica dopo il rifiuto da parte delle ali radicali di Maidan. Il presidente fu costretto alla fuga, venne insediato il primo governo guidato da Yatseniuk e Poroshenko fu eletto successivamente presidente.

La rivoluzione arancione del 2004

Euromaidan è vista da Mosca come un colpo di stato, dall’Occidente come un passaggio turbolento di potere in una cornice democratica. La narrazione è diversa a seconda della prospettiva, in realtà le manifestazioni del 2013 e del 2014 hanno avuto due facce: quella della protesta ucraina spontanea, europeista e contro il sistema cleptocratico di Yanukovich, ma anche quella delle spinte occidentali, soprattutto statunitensi, per il cambiamento di regime a tutti i costi. Lo scenario è stato quello che si era già visto nel 2004, con la prima rivoluzione, quella arancione, dove a Maidan si erano sfidati sempre Yanukovich, delfino del presidente uscente Leonid Kuchma, e Victor Yushchenko, che avrebbe vinto le elezioni dopo la ripetizione del ballottaggio e guidato il paese per cinque anni, sino al 2010 e alla rivincita di Yanukovich. Anche allora lo schema era quello di un duello ucraino tra uno schieramento filo-occidentale e uno filo-russo, supportati direttamente da Mosca e da Washington. Il successo della rivoluzione arancione fu di breve respiro, il governo di Yulia Tymoshenko andò a rotoli e il paese rimase sostanzialmente diviso internamente e in bilico tra Russia e Occidente.

Una nuova rivoluzione?

Volodymyr Zelensky è stato eletto nel 2019, dopo il mandato di Poroshenko. L’Ucraina aveva già perso nel frattempo la Crimea e parte del Donbass, dopo la prima guerra cominciata nell’aprile del 2014 come operazione antiterrorismo del governo di Kiev di riportare sotto controllo le regioni ribelli di Lugansk e Donetsk, sollevatesi contro il governo di Yatseniuk. In questi giorni, mentre si ricorda il decennale di Maidan, quasi due anni dopo l’inizio dell’invasione russa cominciata nel febbraio del 2022, il presidente ha lanciato l’allarme di una terza rivoluzione in arrivo, sempre orchestrata dalla Russia. Mosca sta continuando le operazioni militari all’est tentando di conquistare alcuni lembi del Donbass, mentre al sud è impegnata a bloccare la controffensiva; per Kiev è un momento di difficoltà, sia al fronte, sia a livello interno, con le frizioni diventate evidenti tra il capo di stato e i vertici militari. Una nuova rivoluzione è concretamente improbabile: Zelensky ha ancora il potere saldamente in mano, in parlamento ha una solida maggioranza e le frazioni filorusse sono diventate irrilevanti, ma soprattutto gode di molto consenso tra l’elettorato. Qualche crepa però c’è e così l’evocazione del pericolo di un terremoto politico pare più che altro un ulteriore segnale all’Occidente perché aumenti il sostegno, politico, militare e finanziario a Kiev, in modo che il presidente non sia costretto all’angolo dall’opposizione interna, guidata sempre da Poroshenko, se il conflitto dovesse prendere nei prossimi mesi una piega negativa.

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