Un test per la piena transizione democratica del Myanmar: così gli osservatori internazionali hanno definito il voto di domani (domenica) per nominare i membri dei due rami del Parlamento. Un esame che il Paese rischia però di non superare. La lega democratica nazionale – il partito di Aung San Suu Kyi – è il grande favorito delle seconde consultazioni democratiche del Paese, ma su queste prime elezioni che si svolgono sotto un governo civile gravano però diverse ombre.
Prima di tutto, il voto rischia di essere oggetto di contestazioni, soprattutto nel caso di quello espresso in anticipo per evitare - in tempo di pandemia – che gli elettori affollino i seggi: qualche caso di manomissione delle schede si è già verificato.
Un altro problema è il voto negato a circa 2 milioni di cittadini. In diverse aree del Paese le urne non apriranno – ufficialmente per ragioni di sicurezza - a causa dei conflitti che ancora flagellano il Myanmar. Nel solo Stato del Rakhine non potranno votare circa un milione di persone.
Vi sono poi coloro privati del diritto di voto dalla stessa Costituzione: i religiosi di qualsiasi confessione e gli appartenenti a diverse minoranze etniche. I musulmani sono ancora discriminati, mentre per i buddisti tutto procede più rapidamente.
A non poter votare saranno anche i Rohingya - il popolo musulmano che vive nel nord del Myanmar – oggetto di una persecuzione che ha spinto circa un milione di loro a fuggire nel vicino Bangladesh. Una questione che a livello internazionale ha di molto offuscato l’immagine di eroina dei diritti umani della Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, attuale consigliera dello Stato, che però gode ancora di un forte sostegno interno.
Il suo partito, la lega democratica nazionale, è in testa nei sondaggi, ma potrebbe non replicare il trionfo del 2015 anche a causa della difficile situazione economica, complicata ulteriormente dalla pandemia. Il consenso si è inoltre sparpagliato tra i molti partiti minori che rappresentano le diverse etnie del Paese, minoranze che non hanno ottenuto dal nuovo governo l’autonomia che desideravano da decenni.
Una frammentazione che potrebbe ridare forza ai militari, il cui potere, nel Paese, è ancora forte.
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