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Perché l’antisemitismo è ancora vivo, “disarticolato e più temibile di un tempo”

Parla Giacomo Jori, professore straordinario di Letteratura italiana nell’Università della Svizzera italiana, coordinatore del centro “Judaica”

  • 19 ottobre 2023, 05:40
  • 27 novembre 2023, 13:24
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Fori di proiettile nella porta di legno della sinagoga di Halle, in Germania, lunedì 20 luglio 2020

  • Keystone
Di: Paolo Rodari

Dal 7 ottobre, data in cui Hamas è passata all’azione in Israele, in Francia si sono registrati più di un centinaio di azioni contro gli ebrei. L’allerta è comunque alta in tutta Europa, tanto che da più parti si parla (e non da oggi) di un ritorno dell’antisemitismo, anche perché come antisemita è bollato l’odio di Hamas per Israele. È davvero così? Decenni dopo la Shoah dobbiamo ancora fare i conti con l’antisemitismo in Europa? E ancora, se l’attacco di Hamas contro Israele ha radici antisemite, come si deve giudicare il Governo di Netanyahu e in particolare la sua politica contro i palestinesi?

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Giacomo Jori

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Ne parliamo con Giacomo Jori, professore straordinario di Letteratura italiana nell’Università della Svizzera italiana, vicedirettore della «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa» e condirettore di «Lettere Italiane». Jori coordina le attività scientifiche del centro di “Judaica” della Fondazione Goren Monti Ferrari. Nei suoi lavori, fra le tante cose, non solo si è dedicato all’intellettuale torinese Furi Jesi che scrisse “L’esilio” riferendosi alla galut della tradizione culturale e religiosa ebraica, ma ha anche curato l’edizione per la Svizzera italiana de “Il ghetto di Varsavia” dell’ebreo piemontese Mario Lattes.

Professore, partiamo dall’inizio. Cos’è l’antisemitismo?

“Mi sono occupato anni fa di un autore italiano, Mario Lattes, che per descrivere l’antisemitismo cita alcuni versi del Libro di Ester: ‘E v’è un popolo sparso fra gli altri popoli, in tutte le province del tuo regno, le cui leggi son differenti da quelle di ogni altro popolo: ed esso non osserva le leggi del re; tal che non è spediente al re di lasciarlo vivere’. Nella Bibbia c’è dunque già la coscienza della diversità di un popolo, che diviene oggetto di persecuzione. Certo, è impossibile ricapitolare tutta la bibliografia esistente sull’antisemitismo, ma citerei almeno la “Storia dell’antisemitismo” di Léon Poliakov; occorre inoltre rifarsi all’antropologia e alla psicologia delle religioni, che hanno individuato nei perseguitati, gli ebrei e non solo, il capro espiatorio, la vittima sacrificale di un gruppo sociale”.

L’Europa è uscita dalla Shoah anche grazie alla sua memoria, decine di testimoni che hanno raccontato cosa è accaduto affinché quel buio non si ripeta più. Questa memoria non è più sufficiente?

“No, non è più sufficiente, e non lo è stata, come ci mostra il sangue degli ultimi decenni; inoltre dobbiamo ora tener conto del venir meno dei testimoni, che fatalmente diminuiscono da una generazione all’altra. L’inevitabile scomparsa dei testimoni ci impone di elaborare nuove strategie per immunizzare il corpo sociale dalla violenza razzista e dall’antisemitismo. Già oggi è decisivo rifarsi ai testi capitali dei testimoni, penso anzitutto a “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Un’altra esperienza fondamentale, da incentivare, sono i viaggi della memoria. Ricordo quando prima con i miei genitori poi da ragazzo con la scuola visitai il campo di concentramento di Mauthausen. Quello e la lettura di Primo Levi sono stati momenti indelebili nella mia formazione. Dunque, sono i testi e i luoghi della memoria a dover essere valorizzati quali elementi della formazione civile dei cittadini europei e del mondo globale”.

Quanto influisce ancora oggi secondo lei un certo pregiudizio anti-giudaico molto antico proprio del cristianesimo? Nel 1543 Lutero pubblica il libello “Degli ebrei e delle loro menzogne”; poi con la controriforma la Chiesa di Roma istituì i ghetti e l’inquisizione. Presto il lessico anti-ebraico da religioso divenne politico fino a sfociare nell’antisemitismo contemporaneo. Tutto questo ha un peso nel ritorno dell’antisemitismo oggi?

“Tutto ciò fa parte di quanto Léon Poliakov ha già studiato. Anche se non credo che quanto sta accadendo sia un mero retaggio dell’antisemitismo maturato in ambito cristiano. Non mi sembrano queste le coordinate. Altre sono le ragioni che muovono le violenze alle quali siamo oggi costretti ad assistere”.

Ma possiamo parlare oggi del ritorno dell’antisemitismo?

“Sì, e lo apprendiamo dalle cronache. Le svastiche sulle sinagoghe, la distruzione di lapidi e ‘pietre d’inciampo’, e tante alte forme di violenza sono gesti antisemiti, che fanno paura anche se non hanno dietro uno Stato, come ai tempi di Hitler. L’antisemitismo disarticolato di oggi è temibile proprio perché imprevedibile, non organizzato, difficilmente contrastabile ed anche riconoscibile. Ripeto, queste nuove violenze non hanno dietro un’ideologia riconoscibile, se non una generica xenofobia, odio e frustrazione che generano violenza. Direi che è un antisemitismo che nasce dall’odio del diverso e che diviene xenofobia e razzismo. Dietro il nazismo c’era Mein Kampf, ma non sono venute meno le tossine generate da quella ideologia, e agiscono in modo imprevedibile”.

Torniamo all’oggi: come distinguere le proteste contro l’operato di un governo, ad esempio quello di Netanyahu, dall’antisemitismo?

“È necessario farlo e va fatto, usando la ragione, e avendo presente che Israele non coincide in tutto e per tutto con gli ebrei e con la loro eredità storica e culturale. Dal 1948 in poi, Israele è uno Stato nello scenario internazionale. Quando si considera l’operato di Israele occorre allora applicare anzitutto le categorie della ragione e della politica e non quelle affettive ed emotive. Va tenuto conto che Israele nasce come risarcimento di un genocidio e questa genesi lo rende uno Stato unico, nei confronti del quale la nostra riflessione deve farsi più attenta ed avvertita. Ma resta uno Stato il cui operato nella storia è politico”.

Se l’antisemitismo è tornato, o se non se ne è mai andato, quali anticorpi usare?

“Come ho detto punterei sulle testimonianze scritte e anche sul cinema, ma sui classici e non sulla fiction. Alla “Vita è bella” di Benigni va preferito “Notte e nebbia” di Alain Resnais, un film/documentario del 1956 che ricostruisce i crimini commessi dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, un vero capolavoro, anche per il testo. L’arte e il pensiero dovranno sostituirsi alla testimonianza, saranno la nostra ‘testimonianza’ di uomini e di cittadini europei”.

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