“Ti senti come un ragno in un barattolo: non puoi parlare di Ucraina, i nostri simboli sono vietati. Se ti ascoltano dire qualcosa contro di loro, ti prendono e ti portano in uno scantinato. Devi sempre guardarti le spalle. Hai paura che vengano a cercarti di notte”.
Ludmila (uno pseudonimo) mi guarda diritto negli occhi. Ma volta le spalle alla telecamera. Non vuole essere ripresa. Ha paura. Siede accanto a sua cognata Oksana (altro pseudonimo) nella stanza dei giochi di questo centro per sfollati a Zaporizhzhia. Sono scappate dai territori occupati con i loro figli. E hanno trovato posto qui insieme a una dozzina di famiglie. La linea del fronte ristagna a poche decine di chilometri.
Queste due mamme non vogliono mostrarsi in volto. Temono ripercussioni per i loro matiri - che sono fratelli - rimasti nella zone in mano ai soldati russi
Assimilazione VS collaborazionismo
Intrappolati tra la guerra di attrito in corso e i confini della Russia via terra e via mare, milioni di persone dalla Crimea a Luhansk vivono con regole decise da Mosca. Introdotte da poco più di un anno con l’annessione illegale delle regioni di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson, fino a Mariupol.
Impossibile indicare con esattezza il numero degli abitanti attualmente sotto occupazione di militari e miliziani inviati da Mosca. Sarebbero addirittura 11 milioni, considerandone quasi 9 nelle quattro aree annesse (secondo l’Onu) e oltre due in Crimea, occupata da quasi un decennio. Ma come si vive nei territori controllati delle forze di Putin, tagliati fuori dallo sguardo del mondo e da gran parte della stampa indipendente, con un’economia devastata dalla guerra e senza alcuna prospettiva di un ritorno rapido alla normalità?
Un gruppo di giovani con il passaporto russo appena ricevuto a Donetsk - Foto del ministero dell'interno russo
Indagine internazionale sulla “russificazione”
Il 24 febbraio 2022 – giustificando l’invasione in Ucraina – Putin aveva dichiarato che non prevedeva di “imporre nulla a nessuno con la forza”. Invece oggi Mosca controlla quasi il 20% del territorio ucraino, dove la popolazione sopravvive tra silenzio e paura.
Per diversi mesi, una decina di giornalisti di media pubblici di tutta Europa ha raccolto testimonianze e interviste sul processo di “russificazione” imposto dal Cremlino in Ucraina. Ne emergono resoconti di pressioni psicologiche e fisiche, torture, deportazioni, reclutamento forzato, cancellazione culturale, riscrittura della storia nei libri scolastici e indottrinamento militare, in contrasto col diritto internazionale e costituendo possibili crimini di guerra.
Larysa Borova, fuggita dalle zone controllate dei russi nei pressi di Kherson. Non ha mai accettato di lavorare per gli occupanti
Chi non rispetta le regole dei russi, rischia grosso. Chi le rispetta rischia invece di essere accusato di “collaborazionismo” dalle autorità ucraine. Che stanno scrivendo un capitolo poco raccontato di questa guerra: i processi – spesso a porte chiuse – a chi è accusato di tradimento o di sostegno agli invasori. Oltre cinquemila incriminazioni finora. A volte solo per non essere fuggiti dalle zone occupate. O per essere rimasti a svolgere la propria professione.
Non puoi parlare di Ucraina, i nostri simboli sono vietati
Ludmilla, Sfollata a Zaporizhzhia
Larysa, l’insulina e il passaporto
Larysa non voleva rimanere sotto il tallone degli invasori. Né tantomeno lavorare per loro. “Sono rimasta per 15 mesi durante l’occupazione. I russi mi hanno chiesto due volte di tornare in ufficio. Ho rifiutato”, mi racconta seduta su una panchina in un parco pubblico di Odessa, dove ora ha trovato alloggio. Era la contabile di un ufficio per le pensioni. “Li odio”, dice senza alterare il tono calmo. “Ho perso tutto a causa loro: il marito, la casa e la famiglia. La vita era diventata insopportabile”. Da qui la decisione di scappare, affidandosi a un servizio di minibus a pagamento. Oltre 5’000 chilometri via Russia per arrivare nell’Ucraina libera. “Mi è costato un sacco di soldi. Ma la mia esistenza vale di più”.
Larysa racconta di una crescente pressione sui passaporti russi: “Le pensioni non sono pagate senza passaporto, gli alimenti non sono garantiti senza passaporto e l’assistenza sanitaria… non ne parliamo nemmeno”.
Una sua amica è rimasta nei territori occupati. “È pensionata, soffre di diabete. Aveva bisogno dell’insulina. I russi gliela davano, minacciandola ogni volta: questa è l’ultima. Se non fai richiesta del passaporto, non la riceverai più”. Pochi giorni fa, in una telefonata a Larysa, ha confermato di aver chiesto e ottenuto il passaporto. A rendere esplicite le minacce di negare l’assistenza sanitaria a chi non lo ha ancora chiesto, è Alexander Petrovich, capo dell’amministrazione del villaggio di Lazurne, un’ora d’auto da Kherson. In un video postato su Telegram il 2 giugno 2023 afferma di conoscere i diabetici e di avere un loro elenco: “Se entro due-tre settimane queste persone non chiederanno la cittadinanza russa, non riceveranno più l’insulina gratuitamente e avranno problemi di salute”. Il passaporto brandito come un’arma. Larysa scrolla le spalle e spalanca gli occhi dietro le lenti spesse della montatura quadrata: “È un’arma psicologica. A volte più pericolosa di un fucile, che ti colpisce una volta sola. Invece così sei costantemente sotto pressione. Ogni giorno”. Meglio fuggire.
Un'abitante di Kakhovka legge la dichiarazoine di fedeltà alla Federazione Russa, alla consegna del passaporto russo insieme a una copia della costituzione
“Un sistema basato su paure e pressioni”
A definire il concetto di “russificazione” è Dmytro Lubinets, avvocato e commissario per i diritti umani del Parlamento di Kiev. “Nessuna libera scelta: l’imposizione dei passaporti è un sistema basato su paura, controllo e pressioni sulla popolazione civile”, spiega in un’intervista al Network di giornalismo investigativo EBU (Unione Europea di radiodiffusione).
Un approccio sistematico – aggiunge l’Ombudsman ucraino – con un obiettivo chiaro: “Distruggere tutto ciò che è collegato all’Ucraina. Lingua compresa”. Nei territori occupati – dichiara Lubinets – “l’uso dell’ucraino è generalmente proibito, in modo totale. Da nostre informazioni, i russi consentono lezioni di ucraino solo sulla carta, per mostrare che prendono in considerazione i diritti delle minoranze. Ma ovviamente è solo un pretesto”. La propaganda russa ha pubblicato numerosi video sulla distribuzione di passaporti, raccolti in ordine cronologico in questa inchiesta su un’apposita timeline. Documenti di identità consegnati in case di riposo, a persone disabili o addirittura al domicilio di anziani in villaggi isolati con apposite unità mobili.
L’imposizione del passaporto russo è un sistema basato sulla paura
Dmytro Lubinets, Avvocato e commissario per i diritti umani del Parlamento di Kiev
Secondo le autorità di Mosca, sono stati già distribuiti quasi due milioni di passaporti. “Fate ordine e fate alla svelta” si era lamentato Vladimir Putin lo scorso 20 marzo col suo ministro degli interni. Aveva chiesto di accelerare il processo di “passaportizzazione”. La macchina della propaganda ha schiacciato l’acceleratore. Due mesi più tardi, un video dello stesso ministero celebrava gli oltre 100 passaporti consegnati in un solo giorno nella regione occupata di Zaporizhzhia: sorrisi, impronte digitali e anziani che giurano sopra la costituzione russa.
Emilia Zacherinska, 69 anni, nonna di Anton. Dopo la morte del marito, ha bruciato il suo passaporto russo. Ora vive nell'ovest dell'Ucraina
Il documento russo e il marito seppellito
La signora Emilia Zacherinska, 69 anni, invece ha bruciato la costituzione russa. E pure il passaporto del marito, all’indomani della sua morte avvenuta pochi mesi fa. “L’ho seppellito da sola, ho chiesto aiuto a due vicini di casa. E la mattina successiva ho dato fuoco ai documenti di mio marito”, mi racconta quando la incontro a Volochysk, sua città natale nell’Ucraina occidentale. Qui adesso ha trovato ospitalità da alcuni parenti. Emilia aveva ricevuto la cittadinanza russa pochi mesi prima, nei territori occupati dai russi a Oleshky, sulla riva sinistra del Dnepr. “Sarei scappata prima di ricevere il passaporto, fosse stato per me”. Invece è rimasta insieme al marito – quand’era ancora in vita – da questo lato del fiume, sotto il giogo degli invasori. Di fronte a loro Kherson, liberata un anno fa dagli ucraini.
“I russi mi intimidivano: dicevano che senza passaporto non avrei più ricevuto la pensione. E senza questo documento era impossibile accedere a un ospedale”. Ma soprattutto, per Emilia era diventato complicato raggiungere il carcere di Kherson, per portare il cibo a suo nipote Anton lì rinchiuso e poi liberato.
Per incontrarlo, ci vogliono un sacco d’ore d’auto in direzione di Odessa, 700 chilometri più a sud.
Anton Lomakin, 29 anni. Questo ex-poliziotto è stato sottoposto a waterboarding durante la prigionia sotto i russi
Anton, tra Waterboarding e tortura “turca”
“Mi hanno coperto la faccia con la mia t-shirt, come una maschera. In tre o quattro mi tenevano braccia e gambe. Uno ha preso una tanica di plastica da 6 litri, credo. E ha iniziato a rovesciarmi lentamente acqua sul viso. Ho cominciato a perdere conoscenza e… a soffocare, entrando in quel crinale tra la vita e la morte, in equilibrio”. Anton Lomakin è il nipote di Emilia. 29 anni, ex-poliziotto ed ex-informatore. Nella Kherson occupata, per mesi ha passato le coordinate delle posizioni nemiche alle forze ucraine. Fino all’arresto, provocato – mi racconta – dalla delazione di una persona “che ritenevo mio amico”. Per quattro mesi Anton viene rinchiuso nelle prigioni dei russi. Teme di non uscirne. Su quel limite tra vita e morte ci finisce almeno quattro volte, sottoposto a waterboarding.
“Versavano l’acqua, mi chiedevano: rispondi ora? Dicevo sì solo per farli smettere”. Un respiro, fiotti sputati, nemmeno il tempo di rispondere. “E loro ricominciavano: pochi secondi, altra acqua. Se non rispondi o non dici nulla, ti tengono così finché non inizi a vomitare.. o ad avere le convulsioni o semplicemente inizi a perdere conoscenza”.
Anton Lomakin, ex-poliziotto ed ex-informatore. Mima la finta esecuzione di cui è stata vittima dopo l'arresto da parte dei russi
L’ultima sigaretta, come in un film
114 giorni di carcere. Anton li ricorda nitidamente. “Urla tutto il giorno”, quasi 24 ore su 24. Ricorda quel compagno di prigione, massacrato di botte e con le costole a pezzi, morto una mattina all’alba. “Me lo ha raccontato uno che condivideva la sua cella, è stato testimone del decesso”. Anton è stato torturato più volte. Non solo col waterboarding. Da Odessa, dove ci incontriamo e dove ora abita (“senza la possibilità di pagarmi le cure e senza un lavoro …non mi assume nessuno qui perché il mio passato spaventa”) mi racconta anche della “tortura turca”: pancia in giù e talloni sollevati. Lui rifiuta l’ordine. Fucile puntato allora sui genitali: “O rimani senza o sollevi le gambe”. Anton cede. Con un bastone gli percuotono le piante dei piedi. “Per tre giorni non ho potuto camminare”. Al momento dell’arresto hanno simulato l’esecuzione. “Fuma l’ultima sigaretta”, poi una raffica di kalashnikov a sfiorargli l’orecchio destro. “È come un film, a volte non credo di aver vissuto tutto questo”. Finalmente scarcerato, si è nascosto nella casa della nonna per alcuni mesi. E con lei poi la rocambolesca fuga verso la libertà: “Era scoppiata la diga di Kakhovka, lo scorso giugno”. La sua città sommersa e trasformata in un’isola, l’attesa sul tetto di casa dei soccorsi russi mai arrivati, un piccolo canotto per attraversare il Dnepr, tra i detriti trascinati dalla corrente e l’aiuto dei militari ucraini per raggiungere la terraferma liberata. Una tragedia trasformata in salvezza.
Antonina Shostak, avvocata a Zaporizhzhia e difensore pubblico di imputati accusati di collaborare con gli occupanti russi
Collaboratori, legge imperfetta
Raggiungere l’Ucraina “libera” non sempre garantisce sollievo. Anzi. L’applicazione in modo draconiano della legge sui “collaboratori” rischia di colpire chi proviene dai territori occupati. Adottata dal Parlamento di Kiev in tutta fretta all’inizio dell’invasione (marzo 2022) introduce modifiche all’articolo 111 del codice penale. Che per reati come il sostegno alle forze di occupazione prevedono pene fino a 15 anni di carcere, restrizioni di movimenti e confisca di tutti i beni.
Una norma che preoccupa attivisti e difensori dei diritti civili, “approvata troppo velocemente quando l’Ucraina non era pronta alla guerra” dice alla RSI l’avvocata Antonina Shostak. La responsabilità per il reato di collaborazionismo, aggiunge, “non è ben definita: non distingue le violazioni commesse sotto pressione psicologica o fisica”. In altre parole: come distinguere per esempio un funzionario pubblico che si è messo al servizio dei russi favorendo violenze contro gli ucraini da un insegnante che ha continuato a svolgere il proprio lavoro in una scuola durante l’occupazione? La legge è inadeguata secondo Shostak, che incontro nel suo ufficio di Zaporizhzhia. All’attività privata, lei affianca il pubblico patrocinio: è difensore d’ufficio di una dozzina di persone accusate di collaborazionismo con i russi. “Ma sono imputati ‘in absentia’, spesso non sanno nemmeno di essere incriminati”, semplicemente perché si trovano tuttora nei territori occupati. “Ricevo i loro dossier ma non riesco a contattarli, li difendo alla cieca”, aggiunge Shostak. Che teme l’erosione dei diritti degli ucraini: “In queste condizioni, non possono difendersi”.
Il tribunale distrettuale di Zaporizhia, dove sono stati già celebrati alcuni processi contro persone accusate di collaborazionismo con i russi
L’Ucraina contro gli ucraini?
Secondo l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, a fine giugno si contavano 5’400 incriminazioni per reati di collaborazionismo, con circa 500 condanne.
L’ombudsman dell’Ucraina Dmytro Lubinets, sollecitato dal Network di giornalismo investigativo EBU, precisa che i procedimenti penali si riferiscono solo a chi ha cooperato attivamente con i russi. Cita gli esempi: chi ha compilato liste di cittadini filo-ucraini nei territori temporaneamente occupati, o cooperato attivamente con le autorità di occupazione, oppure organizzato eventi di massa promuovendo la narrativa russa.
Anche Kiev dovrà forse rispondere di violazioni davanti alla Corte europea per i diritti umani
Kateryna Rashevska, Centro regionale ucraino per i diritti umani
“Nessuna imputazione per i cittadini ucraini che hanno ricevuto il passaporto russo”. Forse un giorno, l’Ucraina “verrà ritenuta colpevole in qualche caso davanti alla Corte Europea per i diritti dell’uomo, per la violazioni di persone riconosciute colpevoli di collaborazionismo”, commenta Kateryna Rashevska, legale del Centro regionale ucraino per i diritti umani.
Per le autorità di Kiev – attraverso la voce di Lubinets – milioni di ucraini “erano sotto occupazione russa e ora sono liberi”. Le condanne, insiste l’ ombudsman, sono una “percentuale ridotta”.
“Diciamo sempre che vogliamo entrare in Europa e aderire ai loro valori, ma non abbiamo un sistema giudiziario che lo dimostri” chiosa l’avvocata Shostak. Con queste legge, osserva, “in un anno e mezzo ci sono state solo due assoluzioni”.
Il signor Viktor, arrestato e detenuto per quasi 7 mesi in attesa di processo con l’accusa di collaborazionismo (ha poi patteggiato)
“Traditori” e la gogna di Telegram
Tra chi non è stato assolto c’è Viktor (ancora uno pseudonimo, ma le sue generalità sono note alla RSI). “Qui in Ucraina non c’è legge, c’è la gogna”. Almeno quella mediatica sì, difficile dargli torto. La sua foto e i suoi riferimenti personali compaiono su un sito telegram che addita pubblicamente i “traditori”.
Viktor, 77 anni, si dichiara vittima di un’ingiustizia. È stato arrestato dai servizi segreti ucraini a un posto di blocco mentre si recava a Zaporizhzhia per un intervento di bypass cardiaco. “Mi hanno sbattuto in carcere preventivo sulla base di lettere anonime”.
Inizialmente incriminato con l’accusa di aver assistito le truppe russe “nella condotta delle ostilità”, rischiava fino a 15 anni di carcere. Durante il processo però il procuratore non è stato in grado di provare queste accuse. Ha così modificato il capo di imputazione, imputando a Viktor il trasferimento di risorse (cibo, benzina e alloggio temporaneo) al nemico. Gli chiedo: lei ha aiutato i russi? Cosa ha fatto per loro? “I russi mica chiedevano il permesso: prendevano tutto e basta” risponde Viktor, che stringe un borsello di pelle marrone e usa un lessico che sembra fermo ai tempi sovietici, come se la Storia si fosse fermata prima dell’indipendenza ucraina del 1993. Gli chiedo la sua appartenenza politica. Spiega di aver ricoperto a lungo l’incarico di vice-capo di un distretto per conto del partito filo-russo “Za Maybutnye” (Per il futuro). Ma era anche uno dei dirigenti di una cooperativa agricola. “Al momento dell’occupazione, insieme ai miei soci, producevamo 20mila tonnellate di cereali, soya, semi di girasole…tutto sparito: i russi lo hanno portato via, in direzione di Rostov”. E hanno anche ucciso centinaia di capi di bestiame, aggiunge Viktor. Dopo 7 mesi di carcere preventivo, a inizio febbraio 2023 è stato scarcerato patteggiando un pagamento di circa 4.000 franchi.
Mi hanno sbattuto in carcere sulla base di lettere anonime
Viktor, accusato di collaborazione
“Era l’unico modo per porre fine alla sua detenzione preventiva e garantire la sua salute” mi ha poi precisato Antonina Shostak, che lo ha difeso al processo. “Se avesse continuato a lottare, avrebbe speso 5 anni in carcere”. L’avvocata sostiene che non ci fosse prova della sua colpevolezza. Ma avverte: casi analoghi rischiano di provocare conflitti sociali tra i cittadini che torneranno nei territori occupati (“dopo la liberazione”) e coloro che vi sono rimasti a vivere malgrado i russi.
Il ministro dell'istruzione russo Sergey Kravtsov presenta i nuovi libri di testo delle scuole, adottati anche nei territori occupati - Dal sito del governo russo
La preside della scuola 28 di Kherson legge il pdf del nuovo libro di storia introdotto dai russi per gli studenti nei territori occupati
La versione di Vladimir
Vivere sotto i russi è rischioso, confermano numerose testimonianze raccolte in questa inchiesta. Ma anche permettere ai propri figli di frequentare le lezioni on-line ucraine. Me lo conferma Tetyana Nadtochiy, preside della “Scuola 28” nel centro di Kherson, edificio con mattonelle rosa pallido. Colpisce il contrasto anagrafico: all’esterno delle aule, anziani in coda per gli aiuti umanitari distribuiti dai volontari. All’interno, aule vuote. “Troppo pericoloso, i nostri ragazzi seguono le lezioni da casa”, spiega la dirigente scolastica. Kherson è in prima linea. Granate e missili tempestano il cielo quotidianamente. Tonfi sordi e lontani rimbombano mentre la preside ci mostra una classe. Banchi allineati con contenitori arancioni per righelli e matite, sulla parete in fondo un grande albero stilizzato con le foto dei bimbi di questa terza appese ai rami disegnati. Eppure è pericoloso seguire le lezioni a distanza anche dalla riva sinistra del fiume, quella occupata. I russi non lo tollerano. “Questi ragazzi si connettono in modo clandestino, sono pochi e nemmeno tutti i giorni” quasi sussurra la preside.
L’altro rischio è quello dell’indottrinamento, secondo alcuni. Le scuole nei territori occupati hanno adottato un libro di storia russo appena rivisto. Comprende anche la narrazione del Cremlino sull’aggressione in Ucraina: si chiama ovviamente “operazione militare speciale”. La versione di Putin. Che non piace ad Amnesty international.
Nel testo, la Russia “presenta il conflitto come guidato dalla Nato, dal mondo occidentale o dall’Ucraina stessa. E nasconde le violazioni in corso e quelle commesse dalle forze russe” dice al Network di giornalismo investigativo EBU Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, dal suo ufficio di Londra. Questo libro, aggiunge, “è uno strumento di propaganda. Sta negando ai bambini ucraini l’accesso alla loro cultura e alla loro storia”.
Il volume è stato presentato lo scorso 7 agosto dal ministro russo dell’istruzione Sergei Kravtsov. Ne ho copia in formato PDF, sul cellulare. Lo mostro alla preside nella scuola di Kherson, città occupata per sei mesi dalle forze di Mosca, che in queste aule si sono pure accampati. “Io c’ero in quel periodo….”. Scrolla il cellulare. Legge: “Nel 2022 all’inizio dell’operazione militare speciale in Ucraina, i territori di Luhansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson sono entrati a far parte della Federazione Russa…”. Pausa. “Pridurki” (“idioti”). Non ho altre parole”.
Viktoria Lisogor mostra il dettaglio di una foto. Al posto del palazzo dove c'er ail suo appartamento ora c'è un grande parcheggio
Viktoria Lisogor, bibliotecaria di Mariupol, mentre osserva le fotografie del suo condominio bombardato e poi demolito dai russi che lì stanno costruendo nuove case
La bibliotecaria di Mariupol
Il disegno di Putin di conquista dell’Ucraina si combatte anche sul piano culturale nei territori occupati. A colpi di libri. Come quelli bruciati nella biblioteca di Mariupol. Dai russi, quando l’hanno conquistata, a maggio 2022. Ma anche dagli stessi dipendenti ucraini, asserragliati all’interno delle biblioteche pubbliche nelle settimane dell’assedio. Costretti a fare falò dei volumi “meno preziosi” per scaldarsi. In assenza d’altro. Viktoria Lisogor era la responsabile del sistema bibliotecario di Mariupol: 15 strutture comunali. È fuggita sotto i bombardamenti durante l’assalto russo alla città sul Mar d’Azov. Ora la incontro nell’unico luogo dove desidera rimanere: tra gli scaffali di libri, ospite della biblioteca di Dnipro.
Ha lanciato un appello sui social per raccogliere libri da destinare “alla futura biblioteca di Mariupol” (“dopo la liberazione”). Ne sono arrivati a centinaia, per ora li sistema qui. Viktoria parla della necessità di una “decontaminazione culturale” nei territori occupati. “Chi è rimasto a Mariupol… non dico siano tutti collaboratori dei russi… no. Alcuni sono stati costretti a rimanere, non avevano alternative…ma forse altri…”. Occorre inventare modalità di conciliazione tra chi non poteva fuggire e chi invece – è il parere di Viktoria – “aspettava l’arrivo dei russi”.
Giunti a Mariupol, gli invasori l’hanno sfregiata urbanisticamente. Hanno bombardato incessantemente interi quartieri residenziali. Palazzi inceneriti. Spesso insieme ai loro abitanti. Proprio come nel palazzo dove abitava Viktoria. Le mostro le foto dell’edificio. “Abitavo qui, al nono piano…lo riconosco”. Ora non esiste più. L’hanno demolito per far spazio a nuove costruzioni. Qui il Cremlino sta investendo parecchi dei 20 miliardi di dollari in totale stanziati – almeno sulla carta – nei prossimi due anni, destinati alla ricostruzione nei territori occupati. La città annerita dalle bombe russe ora – nei piani di Putin – dovrebbe riverberare di pace e serenità. Incluso il nuovo teatro d’arte drammatica, in sostituzione di quello bombardato dai russi il 16 marzo 2022 mentre ospitava centinaia di civili, in gran parte uccisi. C’è chi la pensa diversamente. “Non voglio più l’Ucraina, è stata dura vivere in Ucraina in questi anni” ha detto Natial Kavun, infermiera a un giornalista di TV2 Danmark a fine agosto. “Mariupol era, è e sempre sarà Russia”, ha aggiunto un pensionato, Victor Pavlovitj a uno dei rarissimi giornalisti occidentali indipendenti in grado di raggiungere la città. Dove la propaganda di Mosca ha già messo in vendite le case edificate sulle macerie di quella bombardate, nella speranza di attirare nuovi residenti.
“Spero che nessuno comprerà queste”, aggiunge Viktoria indicando sulle foto le palazzine accanto al parcheggio dove prima sorgeva il suo condominio. “Le hanno costruite letteralmente sulle ossa dei morti: i miei quattro vicini uccisi in un bombardamento. I loro cadaveri sono rimasti là sotto, nelle cantine. Non siamo stati in grado di recuperarli. Era troppo pericoloso”.
Il silenzio di Marina
Tra le testimonianze di chi è fuggito dai territori manca quella di Marina, ex-infermiera in un ospedale alle porte di Kherson. Apprendo di lei nell’ospedale cittadino, in centro. Omar, guardiano dallo sguardo buono, chiede di attendere. Arriva Olena Marcenko, geriatra, una matita nera allunga un po’ il disegno dei suoi occhi. Conferma che la sua amica Marina è appena scappata dalle zone occupate, viveva dall’altra parte del fiume Dnepr. Mi passa il suo contatto. È ora di lasciare Kherson, troppo rischioso restare la sera. I soldati russi martellano con l’artiglieria a qualsiasi orario, colpiscono spesso al tramonto. Riprendo il viaggio verso Odessa. Sosta all’altezza di Kryvy Rih, la città del presidente Zelensky. Telefono a Marina, dall’angolo di una piazza. Tre militari chiedono i documenti a Danylo, il collega ucraino che mi accompagna e mi aiuta nella traduzione. Vogliono verificare che sia in regola con gli appuntamenti periodici per il reclutamento nelle forze armate. Ha 25 anni e una laurea in economia. Ma per fortuna non è ancora il momento di partire per il fronte. Il figlio 26enne del cameraman Seryii, invece, combatte da mesi nella zona di Bakhmut. “Non dormo mai tranquillo”, mi dice il papà mentre appoggia il treppiedi della telecamera con l’ennesima sigaretta penzolante dall’angolo delle labbra ma incollata. Squilla il telefono di Marina. Risponde, dice che è vicino a Kiev con sua figlia. Ma quando le chiedo se possiamo incontrarci si scusa e dice che no, non può. “Ho troppa paura per i miei famigliari rimasti sotto i russi”. Si scusa più volte. Quasi fosse colpa sua.
La perquisizione nell'appartamento di Halyna, con i russi che cercavano un suo parente già componente delle forze armate ucraine
La festa della scuola nella città occupata dai russi in cui vive Halyna, un'apparenza di normalità mentre lei e la sua famiglia continuano a vivere nel terorre
Gli schizzi di Halyna, rimasta bloccata
Halyna invece non è riuscita a scappare. Ha due figli, di cui uno disabile. La sua voce arriva da una cittadina nella zona occupata di Zaporizhzhia. Una voce filtrata – anche questa volta – dalla necessità di garantire l’anonimato e di proteggere la sua sicurezza. E dalla brevità di messaggi scambiati sul cellulare con Alla Sadovnyk della Televisione pubblica ucraina UA:PBC, che l’aveva conosciuta in passato durante un servizio giornalistico.
Sono in contatto da un anno e mezzo. Ora i loro brevi scambi prendono la forma di schizzi. Disegni per raccontare, di nuovo, la paura. Anzi, il terrore. Halyna non vuole rilasciare interviste video o audio: un suo parente ha prestato servizio nelle forze armate ucraine. Lei teme di essere fermata e mandata nei famigerati “campi di filtrazione”. Da dove molti civili sono stati poi deportati in Russia.
Dallo scambio di messaggi emerge un racconto in 8 tavole che scandiscono gli ultimi 19 mesi della vita di Halyna, dei suoi figli e dell’anziano padre che vive con loro. Halyna chiama gli occupanti “rashisti”. Un neologismo molto usato in Ucraina: combina il termine “russi” con “fascisti”.
Aprile 2022, i “rashisti” conquistano la città. “Ci intimidiscono, dicono che l’Ucraina ci ha abbandonato”.
Luglio 2022, sospesi i contributi sociali alla famiglia di Halyna. “Nessuna assistenza per i bambini disabili questo mese. Impossibile pagare le bollette delle utenze”.
Dicembre 2022: i “rashisti” tornano a perquisire l’appartamento di Halyna, una seconda volta. “Mi gridavano che mi avrebbero portato via i figli e li avrebbero fatti a pezzi. Hanno gridato a mio padre che stava male”.
Gennaio 2023: lo smarrimento di fronte a un tempo di attesa cristallizzato. “Tutte le stagioni sembrano mescolate tra loro. Mio figlio ha la tosse. L’altro figlio tira calci e pugni al muro, grida che vuol vedere morire i russi. Piango. Passerà. Sopravviveremo”.
Settembre 2023: Halyna ha preso il passaporto russo. I suoi figli inizieranno presto la scuola. “Hanno distribuito le divisa scolastiche gratuitamente. Mio figlio dice che i libri di testo fanno schifo”.
Ottobre 2023: La russificazione della città di Halyna continua. “Scolari e insegnanti sono stati obbligati a festeggiare il primo anno di annessione della regione di Zaporizhzhia alla Federazione Russa”.
Oleksandr Samoilenko, capo dell'assemblea legislativa della regione di Kherson nella parte liberata della provinca
Il modello del giuramento di fedeltà alla patria, cioè alla Federazione russa. Viene fatto leggere al ai cittadini che ricevono la cittadinanza e il passaporto.
Chiamata alle armi, russe
Halyna è tuttora nei territori occupati. L’infermiera Marina invece è scappata per lo stesso motivo di Ludmila e Oksana, le due cognate incontrate a Zaporizhzhia all’inizio: il timore di mandare i figli nelle scuole dei russi. Per una di loro però c’è una ragione aggiuntiva: evitare l’arruolamento forzato del figlio ventenne. “Sono iniziate le registrazioni per la mobilitazione”.
Per i più piccoli invece i russi hanno creato un’organizzazione militarista. “Si chiama Yunarmija”, mi spiega Oleksandr Samoilenko, capo dell’assemblea legislativa della regione di Kherson. “Si rivolge ai bambini, ma non ha nulla a che fare con l’istruzione: è una base ideologica che espone i più piccoli alla propaganda”.
In una dichiarazione scritta, il capo della procura di Zaporizhzhia conferma alla RSI l’avvio di inchieste nel procedimento penale contro i leader di quattro “movimenti militari patriottici infantili”, tra cui Yunarmija.
Samoilenko aggiunge la mobilitazione sta prendendo forma anche nell’area di Kherson. “Arruoleranno quelli che hanno preso il passaporto russo…che sono rimasti lì”. Sopra i 18 anni è comunque difficile sottrarsi alla chiamata alle armi nei territori occupati. Secondo il commissario per i diritti umani del Parlamento di Kiev, Dmytro Lubinets, in quelle regioni circa 60’000 cittadini ucraini possono essere considerati morti “tra coloro che sono stati illegalmente reclutati dalla Russia”. Cifre impossibili da verificare in modo indipendente.
Ludmila e Oksana sono in ansia per la sorte dei loro mariti. “Non sono giovanissimi, potrebbero essere arruolati”. Per ora sono rimasti nel villaggio controllato dagli uomini di Putin. “Si fanno vedere poco in giro, si nascondono”. Riuscite a parlarvi? “Qualche volta. Ma loro usano la connessione russa. Cerchiamo di non chiedere troppo…chissà se i russi ci ascoltano”.
Ancora una volta, silenzio e paura.
* Questo articolo è stato realizzato con il contributo di Christoph Bendas (ORF), Louise Jensen (DR), Belén López Garrido (EBU), Indrè Makaraityte (LRT), Pilar Requena (RTVE), Lili Rutai (EBU), Alla Sadovynk (UA:PBC) e Derek Bowler (EBU).
Radiogiornale delle 09.00 del 16.11.2023: l’inchiesta sulla russificazione dei territori ucraini occupati
RSI Info 16.11.2023, 17:35