Viaggio nella Siria del dopo Assad

A dicembre una coalizione a guida islamista ha rovesciato un regime al potere da decenni, ma nel Paese regna anche l’incertezza tra chi crede in un futuro migliore e chi teme ritorsioni

  • 2 ore fa
Di: Naima Chicherio, inviata RSI in Siria - RSI Info, produzione
Indice

Un viaggio per tentare di capire la nuova Siria

All’inizio dello scorso dicembre, una coalizione guidata dal movimento islamista Hayat Tahrir al-Sham ha preso il potere in Siria, rovesciando il regime degli al-Assad, al governo da decenni. E ora? Cosa succederà in Siria? Quali sono le speranze, ma anche i timori della popolazione?

RSI info ha affrontato un viaggio nel Paese arabo per raccogliere testimonianze e tentare di capire sia il passato dei siriani sia cosa si prefigurano per il futuro: un viaggio fatto di interviste e reportage radiofonici che vi riproponiamo in questo nostro gran formato digitale.

Il filo conduttore di questi contributi sono la perdita e la privazione: la perdita di persone care, di anni di vita, ma per alcuni anche di certezze con il rovesciamento dei rapporti di forza. Ma poi ci sono anche le privazioni materiali: la guerra in Siria, negli ultimi anni, ha portato a un grande aumento della miseria nel Paese e non è ancora chiaro come faranno i siriani a risollevarsi da tutta questa povertà.

Divieti e punizioni dell’ex regime

07:32

La Siria dopo la caduta di Al Assad

SEIDISERA 27.01.2025, 18:00

  • Keystone

“Qui non potevamo avere formaggio o cioccolato svizzero. Era proibito importare qualsiasi bene, alimentare e non, doveva essere tutto siriano”. Eimad è impiegato in un minimarket a Damasco, capitale siriana. Ora al negozio, mostra con felicità la varietà dei prodotti in vendita. C’è di tutto. C’è effettivamente anche cioccolato di una nota marca elvetica, ma fino a neanche due mesi fa, lui, qualsiasi suo collega o il suo capo per questo potevano finire in prigione.

“Gli agenti del regime arrivavano all’improvviso, ci obbligavano a uscire, chiudevano tutte le porte, passavano il negozio al setaccio e, se trovavano qualcosa di importato, si portavano via uno di noi a cui toccava poi pagare un sacco di soldi per tirarsi fuori dai guai”. E in questo negozio, un anno fa, è ciò che è effettivamente capitato, spiega alla RSI il proprietario Abdurrahman, che oggi si fa grandi risate parlando del passato.

A volte – spiega – riuscivano a trattare con gli agenti, che in cambio del silenzio incassavano soldi, ma solo se venivano a controllare di loro spontanea volontà. Dovevano essere irremovibili se invece ce li mandava qualcuno. E le segnalazioni potevano arrivare anche da un vicino arrabbiato o invidioso, alimentando così un clima di sospetto e di vendette personali.

“Era un rischioso sgarrare, ma era pur sempre un gioco fra le parti”, dice Abdurrahman. “I soldi fatti coi beni esteri ci permettevano di risolvere la situazione, certo a caro prezzo, ma comunque ci guadagnavamo perché questi prodotti erano il 70% del nostro fatturato. Dal canto suo, il regime raramente teneva in prigione qualcuno per lungo tempo per queste violazioni e così noi siriani continuavamo a rischiare e a importare beni esteri, a pagare e ad arricchire Bashar al-Assad e i suoi uomini”.

La Siria è uno Stato fallito. Lo stipendio medio degli impiegati pubblici è di 30 franchi soltanto. Un venditore ne prende al massimo 80, mentre un affitto a Damasco costa circa 200 franchi. La Lira siriana è carta straccia, si gira con impressionanti mazzette di soldi che non valgono nulla. Impossibile vivere così. Anche usare i dollari, una moneta decisamente più stabile, era proibito e poteva farti finire in prigione. I siriani non potevano neanche dire la parola “dollari”. Al telefono parlavano in codice.

“Eravamo costretti a violare le regole per sopravvivere. Oltre 50 anni di dittatura e la guerra ci hanno ridotti malissimo. Beni fondamentali come pane, zucchero e benzina erano razionati. Eravamo sempre in modalità sopravvivenza, ma anche questo faceva parte dei piani dell’ex presidente: ridurci così per impedirci di pensare, di lottare contro un Governo criminale, che ci ha bombardati e massacrati, che si arricchiva con il traffico di droga, come il Captagon e che ci ha tolto ogni libertà”.

Homs alla resa dei conti

05:50

RG 12.30 del 28.01.2025: Il servizio di Naima Chicherio da Homs

RSI Info 28.01.2025, 12:30

  • RSI Naima Chicherio

“Di che religione sei?”. Ai checkpoint per entrare a Homs è spesso questa la prima domanda che ti fanno gli uomini di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), che vogliono sapere soprattutto se sei un alawita. La domanda, che arriva a bruciapelo, tradisce così un clima di grandi tensioni nella terza città del Paese, dove gli scontri armati fra fazioni non sono quotidiani, ma poco ci manca e dove i sunniti come il nuovo leader Ahmed al-Sharaa e gli alawiti come l’ex presidente Bashar al-Assad sono di nuovo alla resa dei conti.

Homs, che ha vissuto un terribile assedio fra 2011 e 2014 da parte del governo siriano e che è stata quasi rasa al suolo, è una città che in questi anni ha sofferto tantissimo. È ancora in gran parte distrutta e fa impressione. Non ci sono i soldi per ricostruire. In molte case, l’elettricità è strutturalmente assente. Migliaia di persone sono state torturate e giustiziate in una delle basi militari della regione. Colpa di una dittatura. Di una famiglia sanguinaria, quella degli al-Assad, che pensava solo ai suoi interessi personali e per cui oggi si accusano indistintamente tutti i membri della sua confessione, anche coloro che non hanno avuto alcun ruolo in quelle atrocità.

IMG_8797.jpeg

La maggior parte della popolazione di Homs è sunnita e si sente quindi liberata da quando è caduto il regime, mentre tanti esponenti della minoranza alawita sono fuggiti sia perché sono arrivati ordini di evacuazione già all’inizio dello scorso mese di dicembre, sia perché hanno ricevuto minacce dirette o hanno assistito a sparatorie, sentito di rapimenti e uccisioni, come quella di un fotografo di Sana, l’agenzia di stampa dell’ex regime, un alawita crivellato di colpi e ritrovato morto ad Hama. È vero però che hanno reagito anche alcuni alawiti che hanno imbracciato le armi contro quelli che inizialmente venivano chiamati “ribelli” e che ora detengono il potere.

A Homs, però, di queste tensioni non ne vuole parlare nessuno. Almeno non esplicitamente. “Siamo qui per garantire la sicurezza di tutti. Le violenze di cui si sente parlare, sono iniziative personali. Azioni isolate. Hayat Tahrir al-Sham non c’entra nulla e non c’entra nulla il nuovo Governo”, dice ai microfoni della RSI uno degli uomini di al-Sharaa, che parla di futuro inclusivo per la Siria ed è tanto attento all’immagine che di lui si restituisce all’estero.

La città, tuttavia, è militarizzata. Ci sono uomini di Hayat Tahrir al-Sham dappertutto. Sono armati e hanno il volto coperto, cosa che fa arrabbiare tanti siriani e che non è un buon indicatore per il futuro.

Significa che potenzialmente puoi fare ciò che vuoi senza essere riconosciuto. Senza doverti giustificare. Senza essere punito.

Siria, la doppia paura degli alawiti

07:37

Siria, quale futuro per il paese?

SEIDISERA 29.01.2025, 18:00

  • RSI Naima Chicherio

È opinione comune, in Siria, che i membri della minoranza alawita fossero in gran parte pro-regime e che abbiano sostenuto o partecipato agli abusi e ai crimini commessi dal clan dell’ex presidente Bashar al-Assad. Tutto falso, secondo molti di loro, fra cui c’è anche Elia, un 39enne della regione di Latakia che descrive un clima decisamente pesante.

“Qualche giorno fa, poco distante da casa, alcuni uomini di Hayat Tahrir al-Sham hanno fermato per strada una ragazza perché non indossava il velo. L’hanno umiliata e maltrattata, hanno cercato di toccarla in parti sensibili. Suo fratello ha tentato di aiutarla e l’hanno picchiato - racconta ai microfoni della RSI - Ci ritengono degli infedeli, quindi ammazzare uno di noi per loro è halal. Andrebbero dritti dritti in paradiso. Sono islamisti. Lo si vede da come ci trattano, dalla barba e dall’assenza di baffi. Sono molto spaventato per la direzione che sta prendendo la Siria”.

Gli uomini di HTS arrivano per lo più da Idlib, spiega Elia. La provincia occidentale siriana è stata governata per anni da Ahmed al Sharaa, allora conosciuto come Abu Mohamed al-Jolani, il suo nome di battaglia. Idlib era stata a lui affidata dal Califfo dello Stato Islamico al-Baghdadi, con cui ha presto tagliato i ponti per affiliarsi ad al-Qaida e fondare, poi, Hayat Tahrir al-Sham.

“Al-Sharaa dice di essere cambiato, ma attorno a lui gravitano ancora decine di gruppi radicali che vengono per lo più da fuori e che hanno armi in abbondanza. Il nuovo leader siriano li tiene sotto controllo, ma quanto tempo passerà prima che questi islamisti ricomincino coi rapimenti, le uccisioni e gli sgozzamenti?”.

Elia teme le derive jihadiste, ma i problemi per la sua minoranza sono già molto concreti, perché la maggior parte dei soldati di al-Assad erano alawiti e oggi tutti loro rischiano di pagare per le atrocità commesse dal regime. Ci sono state decine di esecuzioni sommarie di ex ufficiali in poche ore a fine gennaio. Alawiti disarmati hanno subito attacchi e umiliazioni. Si registrano vittime anche fra loro secondo alcune ONG locali.

“Io detesto da sempre gli al-Assad, credo nella democrazia. Sono stato costretto ad arruolarmi, ma non ho combattuto. Lavoravo in una struttura governativa che ospitava gli orfani della guerra, non ho sparato un solo colpo”, spiega Elia, secondo cui attribuire le responsabilità del passato su base religiosa è sbagliato perché anche lui e la sua famiglia sono stati vittime del regime. “Davano alle fiamme i nostri boschi per realizzare i loro progetti immobiliari, per comprare terreni a poco prezzo, per tenerci poveri, per costringerci ad arruolarci. Tutti pensano fossimo privilegiati, ma per Bashar al-Assad non contavamo nulla anche se siamo alawiti come lui”.

Senza un lavoro, senza la possibilità di fondare una famiglia, a quasi 40 anni, Elia passa le sue giornate a raccogliere legna semi bruciata a qualche chilometro da casa, dove recentemente c’è stato un incendio doloso. Nelle aree rimaste verdi, prendere il legname è proibito. “Sono certo che sia stata la famiglia dell’ex presidente”, dice, mentre con le mani annerite, si chiede come farà - dopo due dittature, una guerra e il possibile ritorno di fazioni islamiste – a permettersi di sognare ancora.

La Siria di oggi anche grazie a Padre Dall’Oglio

04:16

Siria: fra sicurezza, paure, e conflitti intestini

SEIDISERA 31.01.2025, 18:00

  • Keystone

Al Monastero di Mar Musa lo sapevano che prima o poi qualcosa sarebbe successo, che qualcosa sarebbe cambiato. Sul momento e sulle modalità, si sono però fatti sorprendere anche i sei monaci - due sorelle e quattro fratelli – e gli altri abitanti, che nel bel mezzo del deserto siriano, dopo aver ricevuto la notizia della caduta di Bashar al-Assad, hanno ribattezzato l’8 gennaio da Immacolata concezione a Immacolata liberazione.

“È stato come se mi avessero tolto una pietra da macina dal petto. Ora si può parlare, criticare. Non c’è più il tiranno. Non c’è più il mostro”. E questo, secondo Abuna Jihad – il Superiore del Monastero – è frutto anche del lavoro di Padre dall’Oglio, che fino al giorno del suo rapimento, si è tanto speso per il popolo siriano.

“Lui diceva sempre che non poteva immaginare la sua vita, il suo riposo, di fronte ai giovani che dal 2011 vanno in piazza a manifestare, alla gente che viene uccisa dai barili, dagli aerei e dall’artiglieria russa e siriana, degli iraniani e di Hezbollah”, racconta Jihad ai microfoni della RSI. “Non sappiamo se sia morto o vivo. Quando hanno liberato i prigionieri a Damasco, a Saydnaya e nelle altre galere del regime, abbiamo sperato di avere nuove notizie. Una delle ipotesi è che sia stato detenuto dal regime, scambiato o comprato dall’Isis o altre fazioni armate o anche dai curdi”. Perché in questa sporca guerra, di scambi fra nemici ce ne sono stati. Nulla. Di Padre Paolo dall’Oglio, oggi, ancora nessuna traccia.

Padre Paolo aveva lasciato Mar Musa, da lui rifondata all’inizio degli anni ’90, per poter essere libero di criticare la dittatura senza mettere nei guai la comunità. Nel 2013 se ne perdono le tracce a Raqqa, dove stava facendo da mediatore fra curdi e jihadisti per evitare una guerra e lavorava affinché un gruppo di ostaggi venisse liberato dall’allora ISIS. Ma è stato rapito anche lui. Sapeva che il rischio c’era, che poteva morire, ma era pronto a tutto per la “patria sposa”, come usava chiamarla.

Paolo Dall'Oglio

“Oggi la libertà c’è. È un dono di Dio che però va custodito e mantenuto. Ed è anche un’occasione d’oro per tutti noi, in Siria ci sono cristiani, musulmani, curdi arabi, armeni, qualcuno di origine greca, circassi, drusi, non possiamo cedere alle fazioni. Nessuno ha il diritto di sprecare questa occasione perché è storica e unica”.

Ed è, secondo il superiore della comunità, un’occasione anche per l’Europa: “Non deve venire a proteggere i cristiani dai musulmani, ma aiutare noi siriani diversi e divisi a dialogare per vivere insieme mettendo al primo posto il bene dei siriani”. Un aiuto sincero, ma anche un modo per pentirsi di promesse che, dalla fine dell’impero ottomano, “sono cadute nel vuoto e per quelle politiche internazionali immorali in Medioriente per cui siamo stati trattati come pozzi da prosciugare”.

La nuova Siria sospesa tra speranze e paure

Giovani che fanno benzina alle proprie moto, gente al mercato che paga in lire turche, un gruppo di donne che fuma la pipa ad acqua in pubblico. Persone felici che confidano in un futuro più libero e prospero ma anche chi si dice preoccupato per la piega che il Paese potrebbe prendere. Sono queste alcune delle immagini dalla Siria, dopo la caduta del dittatore Bashar al-Assad, evocate dal nostro viaggio e che mostrano che qualcosa è cambiato, radicalmente.

Ora si è in una fase di transizione: ma quanto durerà? L’incertezza è ancora grande dopo la prese del potere da parte del gruppo sunnita Hay’at Tahrir al-Sham e servirà ancora tempo per lasciare spazio a qualcosa di più stabile. Nel bene, o nel male.

30:14

Quale Siria?

Modem 05.02.2025, 08:30

  • Keystone

Il reportage di Falò un mese dopo la caduta degli Assad

Lo scorso dicembre, in appena una decina di giorni, il regime sanguinario degli al-Assad è improvvisamente crollato. A capo delle forze insorte si è insediato il gruppo politico Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidato dal suo leader Ahmed Hussein al-Sharaa che ha un passato in Al Qaeda, Isis e Fronte al-Nusra. Al-Sharaa oggi si dichiara moderato e afferma di voler rispettare le minoranze. Ma è davvero così? E fino a quando? A poco più di un mese dalla caduta di Bashar al-Assad, Falò si è recato in Siria per cercare di capire come questo Paese, devastato da tredici anni di guerra, prova a ripartire.

11:27

Siria, un mese senza regime

Falò 14.01.2025, 21:15

Correlati

Ti potrebbe interessare