Le aspettative non erano altissime, ma alcuni effetti concreti la conferenza sul Bürgenstock li ha avuti. Prima di tutto una fotografia precisa, e piuttosto impietosa, della posizione dei vari paesi al mondo sulla guerra in Ucraina. Alcuni giganti, come la Cina, il Brasile, l’India e il Sudafrica, non sono disposti oggi a condannare l’invasione russa dell’Ucraina, né a distinguere troppo tra paese aggredito e paese aggressore. Vorrebbero che i belligeranti si trovassero “a metà strada”. Occorre prenderne atto.
Vistosa anche l’assenza dei paesi del Nord Africa (Egitto, Marocco, Algeria, Tunisia) che pure sono stati pesantemente penalizzati dal blocco della navigazione sul Mar Nero, sui quali sembrano aver però fatto effetto le minacce russe nei confronti di chi avesse partecipato alla conferenza.
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Concretamente, la Svizzera non è riuscita ad ampliare significativamente il numero dei paesi che concordano sul fatto che la carta dell’ONU deve essere la base di ogni negoziato di pace e che la Russia non può avanzare pretese su regioni ucraine che ha occupato con la forza militare.
Eppure, l’iniziativa svizzera è riuscita a rimettere al centro dell’attenzione internazionale le questioni cruciali che progressivamente stavano perdendo di centralità: i 20’000 bambini ucraini portati in Russia e che hanno perso contatto con le proprie famiglie, i prigionieri di guerra, anche quelli civili, la sicurezza delle centrali nucleari e il tabù dell’uso dell’arma atomica. È inoltre riuscita a spostare il dibattito dal calderone in cui la guerra in Ucraina veniva rimestata affibbiando ogni colpa alla NATO e agli Stati Uniti. Ed è riuscita a riportarlo all’Ucraina in sé e al dramma della guerra in corso. Con il contributo di paesi come l’Estonia e la Georgia, che hanno ricordato alcune cattive soluzioni di pace “alla russa”. E con il monito del ministro degli esteri turco Fidan, che ha definito la conferenza sul Bürgenstock come l’ultima uscita possibile, prima di proseguire sulla strada del disastro.
Il commento di Simona Cereghetti
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