La Svizzera è ancora in attesa di notizie dall’Iran: cosa è successo veramente in una delle sue prigioni lo scorso 9 gennaio? Come e perché è morto in una cella iraniana un cittadino svizzero? Teheran dovrà dare delle risposte. Nel frattempo la salma del 64enne è rientrata in patria pochi giorni fa. Era uno dei detenuti della prigione centrale di Semnan, arrestato lo scorso dicembre con l’accusa di spionaggio. Era entrato in Iran come turista, da una ventina d’anni risiedeva in Sudafrica. Per il momento non si sa quasi nient’altro. Secondo le autorità iraniane, si sarebbe tolto la vita in cella quel 9 gennaio approfittando di un momento in cui non era sorvegliato. Fino a quel giorno, a parte le autorità e i suoi familiari, di lui e della sua vicenda nessuno sapeva nulla in Svizzera. Come non si sa nulla o quasi di tutti gli altri cittadini svizzeri incarcerati all’estero o agli arresti domiciliari. Quanti sono, dove si trovano e di quali reati sono accusati? Ma soprattutto, in che condizioni di detenzione si trovano?
Svizzeri privati di libertà all’estero: le cifre del DFAE
Ecco le risposte che abbiamo raccolto chiedendo informazioni al Dipartimento federale degli Affari esteri.
Allo stato attuale gli svizzeri in stato di privazione di libertà all’estero sono 234. I dati non fanno distinzione fra chi è in prigione e chi è agli arresti domiciliari e dal Dipartimento federale degli affari esteri ci mettono in guardia: fra scarcerazioni, rimpatri o nuovi arresti, le cifre possono cambiare da un giorno all’altro.
Nel dettaglio, oggi la situazione è questa: dei 234 privati di libertà all’estero, 54 cittadini svizzeri lo sono per reati legati alla droga. Altri 180 per reati di altra natura di cui non viene specificato il tipo. La maggior parte, oltre un centinaio, si trova in detenzione in Europa, principalmente in Francia e in Germania. Molti scontano pene anche negli Stati Uniti e in America latina, seguiti numericamente dalle presenze in Asia, Africa e Oceania.
Di più il Dipartimento federale degli affari esteri non dice. Rispetto della privacy e sicurezza sono le parole d’ordine. Incrociando i dati forniti dalle autorità in altre rare occasioni su richiesta dei giornalisti e facendo ricerche d’archivio si può però andare oltre lo scatto fotografico dell’attualità e individuare una tendenza. Ebbene, negli ultimi anni si è registrato un aumento delle detenzioni di svizzeri all’estero; se 25 anni fa erano attorno ai 160, oggi superano i 200. Si tratta di dati indicativi anche perché il Dipartimento “non tiene statistiche sui casi di privazione della libertà di cittadini all’estero”, come ci viene riferito.
Rinchiusi in carceri fra torture e violenze
Dalle cifre spiccano altri dati interessanti e spesso preoccupanti. Se in Iran, dopo la triste vicenda assurta alla cronaca gli scorsi giorni, ora non ci sono più svizzeri in stato di detenzione, se ne trovano altri in Paesi spesso oggetto di denunce da parte delle organizzazioni a difesa dei diritti umani. In Russia attualmente quattro cittadini svizzeri sono in regime di privazione di libertà, non è dato sapere se sono agli arresti domiciliari o in carcere. Soltanto uno di loro è accusato di reati legati alla droga. Poi ancora fra i casi più recenti e delicati c’è l’arresto di un cittadino svizzero in Venezuela. È stato incarcerato verosimilmente il 7 gennaio scorso con altri 126 cittadini stranieri, tutti accusati di essere mercenari e di far parte di un complotto per rovesciare il governo del presidente Nicolas Maduro, al potere dopo un’elezione estremamente contestata. Le prigioni venezuelane sono state ripetutamente segnalate per le pessime e violente condizioni di detenzione.
E poi in cima all’attualità più recente c’è la Siria. “Il DFAE è a conoscenza di tre uomini, una donna e il loro bambino, cittadini svizzeri detenuti dalle autorità curde de facto nel nord-est della Siria”, si legge nel sito del Dipartimento.
Il loro caso è emblematico perché si specchia in quello di altre decine di migliaia di persone. Gli svizzeri in Siria fanno infatti parte del nutrito gruppo di foreign fighters partiti da tutto il mondo per dar man forte ai combattenti dell’Isis nella loro folle e feroce conquista di terre e città a partire da Iraq e Siria. Si parla di decine di migliaia di persone. IS, Stato islamico, Daesh erano i nomi che nelle cronache di dieci anni fa volevano dire tutti le stesse cose: terrore per le popolazioni conquistate, orrore per l’opinione pubblica mondiale, ma anche fascinazione per molti giovani uomini e donne che si sono lasciati radicalizzare nei propri paesi, anche in Svizzera, per poi partire alla volta di Siria e Iraq a rimpolpare le file dell’IS. Con la sconfitta nel 2019 dell’ultima roccaforte dello Stato islamico a Baghouz in Siria, per molti di loro il destino si è fermato in prigioni o in campi di detenzione nel nord-est del Paese.
Daniel D., durante un’intervista a RTS
Il caso di Daniel D. è il più noto ed è tornato alla ribalta della cronaca proprio in questi giorni. Oggi trentenne, nel 2015 era partito da Ginevra per arruolarsi nell’IS in Siria. In poco tempo si era conquistato il titolo di “jihadista più pericoloso della Svizzera”. Per quattro anni ha combattuto e nel 2019 le Forze democratiche siriane dominate dai curdi lo hanno arrestato. Oggi si trova in un carcere nella parte nordorientale della Siria, denuncia torture e maltrattamenti e da tre anni chiede di essere rimpatriato. Ma la Svizzera non ci sente, specificando, per voce del Consiglio federale che non intende offrire sostegno attivo al rimpatrio di adulti che sono andati all’estero per motivi di terrorismo. Il caso è finito al Tribunale federale che ha decretato che Daniel deve aver la possibilità di presentare ricorso contro questa posizione, cosa che finora non gli è stata possibile perché il DFAE ha deciso di non assisterlo per il rimpatrio senza però emettere una decisione formale contro cui potersi appellare.
Dalla Siria non torna nessuno
Temendo che possa costituire un pericolo, la Svizzera non è l’unico Paese in Europa e nel mondo, che non intende rimpatriare i propri cittadini che sono partiti per unirsi all’IS. Con la caduta del governo di Bashar al Assad gli stessi siriani temono che lo Stato islamico possa tornare a colpire e a destabilizzare di nuovo la regione. I 56’000 cittadini stranieri, ex miliziani dell’IS, rinchiusi nelle carceri e nei campi di prigionia nel nord-est della Siria sono trattenuti dalle forze democratiche siriane a maggioranza curda con preoccupazioni sempre maggiori. La richiesta è che i Paesi di provenienza se li riprendano, ma è una richiesta che cade nel vuoto.
Nel frattempo, nei campi di prigionia, insieme alle mogli e ai parenti dei foreign fighters, ci sono anche i loro figli, tra cui una bambina svizzera di sette anni, nata e cresciuta nella prigione a cielo aperto di Roj in condizioni precarie. La Svizzera è disposta a rimpatriarla in quanto minorenne, ma a una condizione dilaniante: che si separi dai suoi famigliari, compresa la mamma.
Iran, intervista a Philippe Welt
Telegiornale 11.01.2025, 20:00