In Ticino si sono gettate le basi per la creazione di un’antenna di ascolto per le vittime degli abusi sessuali nell’ambito della Chiesa cattolica, così come già succede in Svizzera tedesca e soprattutto in Svizzera romanda. Un incontro, intitolato “Le vittime aiutano le altre vittime”, si è svolto mercoledì sera a Lugano. Tra gli altri erano presenti il cofondatore dell’associazione romanda e una persona, Valerio Maj, vittima di un abuso da parte di un prete cattolico.
La testimonianza
La storia di Valerio Maj è una di quelle storie già sentite, con uno schema talmente lineare che la rende, forse, anche per questo, ancor più dolorosa. Valerio è nato nel 1956. Famiglia modesta, padre assente, alcolizzato. E un paesino della bergamasca dove, racconta, ogni famiglia aveva in casa o un prete o un seminarista. E la strada del seminario, unica via per continuare gli studi, la prende anche lui, prima in Liguria e poi in provincia di Brescia, dove incontra il suo aguzzino. Per un anno e mezzo Don Mario abusa di Valerio che, all’epoca, ha solo 13 anni. Il prete, con la infida maschera della gentilezza e dell’affetto, si prende quel ruolo di padre che il ragazzino non ha mai davvero avuto. Il dolore si mischia alla vergogna e al senso di colpa e col passare degli anni si trasforma in alcolismo, ansia, autodistruzione, pensieri suicidi e in un costante desiderio di fuggire. Valerio Maj, nel suo girovagare, passa anche dal Ticino, da Faido, e trova finalmente una casa e una famiglia a Neuchâtel. Ma il dolore c’è sempre, anche se è ben nascosto e nel 2006 prende la forma di un burn out. Seguono due anni di terapia e finalmente la presa di coscienza. Capisce che l’unica via d’uscita è affrontare il trauma, che nel suo caso ha un volto ben preciso, quello di don Mario.
“All’inizio mi dicevo: contatto don Mario, ci possiamo spiegare. Posso dirgli quello che ho sul cuore. Lui può dirmi cosa è stato. Può chiedermi scusa. Per me sarebbe finita lì, sicuramente. Ma come mi ha risposto? Gli scrivo: “Lo so dove sei”. Risponde: “Ah, sono qui”... Senza neanche chiamarmi per nome. Per me sarebbe finita lì la storia, invece lì sono cominciati tutti i problemi, che sono durati due anni. Perfino il prete che mi ha sposato, quando gli ho scritto dopo un anno quello che mi era successo, non mi ha mai risposto”.
Nella sua vicenda cos’è che l’ha delusa di più?
“Di non aver ricevuto le scuse da nessuno, che era il minimo che potevano fare. E soprattutto dei sacerdoti che ho contattato. Due mi hanno aiutati: il vescovo di Friburgo e l’altro vescovo mio amico, che è missionario in Asia, i soli che mi hanno aiutato. Gli altri hanno difeso la loro Chiesa... uno mi ha detto che erano più gravi gli abusi in una famiglia”.
Lei ha ricevuto un indennizzo finanziario. Questo ha in qualche modo lenito le sofferenze?
“È un riconoscimento che quello che ho detto era verità, perché è arrivato fino a Roma. A Roma non mandano verdetti se non c’è nulla... anche se non ho visto neanche una riga scritta; 20’000 franchi sono molti, non li ho neanche tenuti per me... ma è qualche cosa che ti dice: sì hanno riconosciuto che sei stato vittima. Sì, questo sì”.
Quanto è importante per le vittime confrontarsi con altre vittime?
“È molto importante. Con il gruppo SAPEC una sera eravamo in tre intorno a una pizza. Abbiamo cominciato a parlare, ci siamo raccontati tutto, di quello che non sapevamo, anche se ci conoscevamo. Ed è molto importante, perché ci si può aiutare tra di noi. Io ho avuto un’esperienza... posso dare degli appigli a un altro per venirne fuori, per salvarsi la vita”.
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