“Hanno bisogno di un morto, hanno bisogno di una strage per rendersi conto del problema? O è sufficiente questa sberla di realtà?”. I problemi, additati lunedì a caldo dal docente di italiano alla Commercio di Bellinzona, Tommaso Soldini, ruoterebbero attorno il profondo disagio giovanile. L’insegnante, sentito a margine del caso dello studente 15enne che ha minacciato una docente con un’arma (rivelatasi poi fortunatamente finta), ha citato l’esperienza personale: “Noi da anni lo viviamo tutti i giorni in classe. Basta chiedere quanti ragazzi fanno uso di psicofarmaci o di calmanti di ogni genere, quanti sono seguiti da uno psicologo, sono in terapia. Basta vedere quante persone sono iscritte al servizio medico psicologico ticinese. Ci sono tutti i dati a disposizione”.
Minacce alla Commercio, aggiornamenti e analisi
SEIDISERA 04.06.2024, 18:18
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La RSI ha chiesto al DECS quanti ragazzi ricorrano effettivamente ad aiuti specializzati. Senza ottenere (per il momento) dei numeri. La questione di un disagio in crescita è stata perciò approfondita con Stelio Belloni, ex direttore delle scuole medie di Balerna e - oggi - referente cantonale per gli eventi di crisi nelle scuole medie. La sua premessa è che non si osserva “un vero e proprio inasprimento con delle percentuali che sono cambiate notevolmente. Direi di no. È cresciuta sicuramente la percezione che questi fenomeni sono in crescita anche perché è cresciuta pure la capacità di comunicazione. Per contro sono aumentate le possibilità di avvicinarsi alle devianze per colpa della incapacità di gestire in modo corretto i media digitali da parte dei nostri ragazzi. Allo stesso tempo, con il peggiorare di tante situazioni a livello di società, a livello di famiglia, tanti dei nostri giovani vivono dei sensi di ingiustizia. Questi due fattori sono sicuramente più presenti”.
Quando parla di gestione dei media digitali cosa intende?
“I messaggi ricevuti sono che la vita è facile. Faccio un esempio: ci sono questi giochi dove tutto sembra risolvibile con soluzioni, spesso però negative. Pensavo inoltre alla comunicazione dei media, dove è più facile che i ragazzi entrino in contatto con delle realtà negative o dei modelli semplicistici. Le pubblicazioni di basso livello propongono poi dei modelli ai quali i ragazzi tendono ad avvicinarsi, ma che però non sono di facile realizzazione e dunque creano frustrazione e sensi di ingiustizia. Da tutto ciò possono svilupparsi dei pensieri sbagliati. Se poi non c’è una possibilità di sfogo, una possibilità di parlare o con un compagno o con un adulto di fiducia, i ragazzi si costruiscono dei castelli che spesso sfociano in situazioni di disagio, frustrazione”.
C’è quindi, secondo lei, anche un’incapacità nell’accettare il fallimento?
“È una bella domanda, anche perché se ripensiamo a questi giochi, lì il fallimento non esiste. Se ho sbagliato qualcosa, schiaccio reset e tutto ricomincia da capo senza che ci siano delle conseguenze”.
In cosa quindi si potrebbe migliorare?
“All’interno della scuola si cerca di far dialogare i giovani. È ciò che inviterei anche le famiglie a fare: non chiedete semplicemente alla sera, come va? Sì, va bene. I genitori dovrebbero veramente chiedere ai ragazzi se stanno vivendo dei momenti di negatività particolari. Se sentono di subire delle ingiustizie. Su questi aspetti dobbiamo riuscire a far parlare i ragazzi, per evitare che poi creino o abbiano dei problemi più grossi”.
La gestione del profitto scolastico
Quanto successo ieri alla Scuola cantonale di commercio ha rimesso in luce un aspetto del disagio giovani, legato agli insuccessi scolastici. Il fallimento sui banchi di scuola: è una problematica che coinvolge allievi, docenti e genitori e che il Dipartimento dell’educazione ha tematizzato ormai dagli anni Ottanta.
L’esempio è quello della Scuola media, un passaggio obbligato per tutti. Il Servizio di sostegno pedagogico c’é da sempre: sono un centinaio i docenti chiamati a gestire varie difficoltà. E chi sta al fronte dice che la conflittualità dei casi è sì aumentata, ma con il peso specifico delle note, accresciuto ai giorni nostri.
Il peso degli insuccessi
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“La scuola è rimasta l’unica istanza che fa ‘ufficialmente’ una selezione” spiega Barbara Bonetti, capogruppo sostegno pedagogico per la Scuola media ticinese. “Una volta se ero figlia di un panettiere, avrei molto probabilmente fatto il panettiere. Mentre oggi ci diciamo che tutti dovrebbero avere le stesse possibilità, ci diciamo che tutti le hanno. Ma non è così. E la scuola rimane l’unica entità che fa dichiaratamente selezione, quindi si vanno a caricare i risultati scolastici di molta più ansia”. Ansia e aspettative, che per chi va alle medie, spesso coincidono anche con quelle dei genitori.
E i casi che il sistema scuola deve affrontare sono aumentati nello spazio di un decennio. “Il docente è ben consapevole, soprattutto quando si tratta poi di pagelle finali, di avere un compito oneroso. Aiuta il fatto di lavorare in gruppo: alle medie c’è un consiglio di classe, ci si confronta, quindi le responsabilità sono spesso condivise. I docenti di sostegno aiutano gli allievi nel loro percorso di apprendimento e affiancano i docenti nell’accompagnare allievi e famiglie a fare un esame della realtà” afferma ancora Bonetti.
Il protocollo prevede che le famiglie vengano informate al più tardi entro aprile del rischio di un insuccesso. “I regolamenti - dice - ci danno il quadro legale nel quale muoverci, per esempio nell’attribuzione di note o certificazioni finali. È necessario che ci siano però degli spazi in cui si può discutere e confrontarsi quando le cose non vanno come ci si aspettava”. Quindi: “Secondo me andrebbe riconosciuta e valorizzata l’importanza di questi spazi di confronto e andrebbero riconosciuti anche a livello di griglia oraria”.
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