8 marzo

Femminicidio, una condanna anche per chi resta

Paolo di Gregorio ha raccontato alla RSI il percorso duro affrontato dopo la perdita di sua figlia, barbaramente uccisa a Morbegno dal marito il il 21 gennaio del 2000 

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La vita di chi resta dopo un femminicidio: la testimonianza di un padre

SEIDISERA 07.03.2025, 18:00

  • © 2024 KEYSTONE-SDA-ATS AG
Di: SEIDISERA/Francesca Torrani/sdr 

Di femminicidi, di uomini che uccidono le donne con cui hanno condiviso un percorso anche sentimentale, si parla sempre di più. Tolto il velo dell’omertà su quel che in troppe case avveniva e avviene, la violenza sulle donne è diventato tema, ha creato leggi, ha cambiato lo sguardo su questa realtà. Quel che meno si sa, anche per la delicatezza che avvolge ogni caso, è la vita di chi resta: i famigliari, i figli quando ci sono, i parenti delle vittime e poi di chi ha compiuto il gesto.

La RSI, a tal proposito, ha raccolto la testimonianza di Paolo Di Gregorio, cittadino con doppio passaporto italo svizzero, che nel 2000, quando lavorava a Uster nel canton Zurigo, ha saputo dell’assassinio di sua figlia Sonia in un paesino della provincia di Sondrio da parte del marito da cui si stava separando. La donna aveva vent’anni e una figlia di 18 mesi.

Una telefonata, “mi hanno detto, guarda che Francesco l’ha fatta grossa”, racconta Di Gregorio aggiungendo che una volta saputo quanto fatto dal marito a Sonia è dovuto ricorrere alle cure di un pronto soccorso. Una scusa ha condotto la donna a tornare nella casa dove ha condiviso il suo percorso matrimoniale, “il ritiro di pacchi con dentro indumenti della bimba, regali del matrimonio”, dice il padre. Lì si è trovato davanti lui che l’ha picchiata e finita con un coltello da sub. Per Paolo Di Gregorio c’è una parola che è rimasta sempre accesa - giustizia - che dice di non aver mai avuto. In Italia l’assassino di sua figlia è stato condannato in appello a undici anni, dopo che in primo grado era stato considerato incapace di intendere e di volere, perciò non carcerato. Ma quegli undici anni sono diventati molti di meno, perché in Italia è arrivata l’epoca dell’indulto e sono stati in molti ad uscire di prigione. Perciò il signor Paolo ha questa parola in mente, giustizia.

“Mia figlia si era rivolta alla magistratura di Sondrio, spiega alla RSI il padre - si era rivolta per ben tre volte, aveva presentato denunce ed avevano promesso protezione. Stia tranquilla, le è stato detto, noi proteggeremo lei e la sua bambina. Non hanno mai fatto né una telefonata, né hanno chiamato lui per dire “cosa stai facendo?...non hanno mosso un dito”.

La bambina è stata cresciuta dai nonni che hanno chiesto subito l’adozione dopo quanto è successo. Non è stato facile ma è stata accordata. “Non è facile, prosegue, quando giocava fuori con gli altri bambini. Parlavano di mamma e lei la mamma non ce l’aveva. Viene quindi da mia moglie e chiede alla nonna se può chiamarla mamma”. Stessa cosa ha fatto con il nonno, chiedendo se poteva chiamarlo papà, richieste alle quali i nonni hanno detto “sì, certamente”, con molta emozione. Con grande difficoltà, nel corso del tempo, gli hanno raccontato tutto. “Le abbiamo fatto capire che la mamma è in cielo adesso, ci guarda da lassù”.

Il tragitto del dolore, la necessità di andare avanti

“Quando ti capita una cosa simile sei devastato, distrutto. La famiglia non esiste più, con tutto il bene che puoi avere la moglie e i figli. C’è un’altra figlia più grande, ricorda ancora l’uomo, quattro anni più grande di Sonia e di mio figlio che ha otto anni di differenza da Sonia. Lui per tre anni non è uscito fuori dalla porta dalla casa, a scuola aveva sempre mal di pancia ed è rimasto bloccato da quella situazione. Trovarsi davanti ai carabinieri, la cassa da morto, è rimasto scioccato.  

Un filo rosso lungo 25 anni che porta il nome di “giustizia”    

“Io cerco giustizia, io voglio giustizia. Ad essere condannati a vita siamo noi familiari, questa è la realtà. Siamo noi condannati a vita e farò di tutto per avere giustizia”. A dare la forza di muoversi in questo gorgo di ricordi neri è la nipote, “una figlia nostra”, come dice nonno Paolo. Unici momenti di tristezza sono i ragionamenti sul proseguimento della lotta per la giustizia. La nipote e la moglie “non vogliono che io continui a fare questa mia battaglia. Ma io non lo faccio solo per me, lo faccio anche per le altre donne che purtroppo in Italia chiedono aiuto che viene loro promesso, ma poi in effetti non fanno nulla”. Paolo Di Gregorio ha fondato l’Associazione italiana Vittima di violenza e sta cercando da anni di realizzare una casa protetta in provincia di Sondrio. Ha incontrato il presidente italiano Sergio Mattarella e poi più di una volta, Papa Bergoglio. Anche a loro ha raccontato la sua storia. Anche a loro ha detto che vuole solo una cosa, vuole giustizia.
                

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