Ricordare Lorenzo Milani significa ripercorrere anni travagliati per la Chiesa cattolica, anni di persecuzione da parte delle gerarchie verso chi, come Milani, mise al centro del proprio agire la preferenza per i poveri, l’annuncio prima di qualsiasi calcolo politico della misericordia del mistero di Dio.
Le origini
Ma partiamo dall’inizio. Milani nacque a Firenze il 27 maggio del 1923. La madre, Alice Weiss era di origine ebraica. Il padre, Albano Milani, chimico, era uno studioso eclettico e dotto. E che, come ha raccontato Valeria Milani Comparetti in Don Milani e suo padre. Carezzarsi con le parole. Testimonianze inedite dagli archivi di famiglia, conosceva varie lingue: tradusse “Il processo” e Il castello di Kafka quando ancora non erano arrivati in Italia, compose poesie in latino e dipingeva. Pur definendosi equidistante tra fede e ateismo, studiò teologia in particolare leggendo testi del cardinale Newman e, con ogni probabilità, influenzò il figlio sulla strada della conversione. I genitori educarono Lorenzo nella libertà, senza costrizioni. E libera fu anche la scelta di Lorenzo di farsi prete. Nell’estate del 1942 trovò un messale in una cappella di famiglia e ne restò affascinato. Nel 1943 entrò in seminario e qualche anno dopo, il 13 luglio 1947, venne ordinato sacerdote. Cosa lo spinse? Come raccontò la madre, la sua conversione “è e resterà un mistero che nessuno potrà spiegare”. Poco di più disse don Raffaele Bensi, parroco di San Michelino a Firenze e sua guida spirituale. Nel giugno 1943 Lorenzo lo accompagnò a celebrare il funerale di un giovane sacerdote. In quell’occasione promise: “Io prenderò il suo posto”. E da lì iniziarono anni di “indigestione di Cristo”, così li chiamò lo stesso don Bensi. Ha scritto su Avvenire Michele Gesualdi, amico e testimone di Milani: “Aveva lasciato gli agi ed i privilegi dei borghesi, la loro cultura ed il loro mondo per un’altra scelta di campo: servire il Vangelo, il Cristo, tentare così di salvarsi l’anima stando dalla parte giusta dei poveri, cioè degli ultimi nella scala gerarchica, cercare di conoscerli da vicino, di viverci insieme, di imparare la loro lingua, insegnargliene un’altra, condividere le loro cause, difendere le loro ragioni”.
Il primo incarico
Appena ordinato sacerdote Milani fu mandato a San Donato a Calenzano. L’incarico era di cappellano del vecchio preposto. La parrocchia era in grande espansione, la cittadina – era il 1947 – stava aumentando il numero dei suoi residenti e il sacerdote non riusciva a stare dietro a tutto. Fu lo stesso prevosto a chiedere al cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, un aiuto. Gli rispose: “Ho quest’anno un giovane prete, non ha nessuna pretesa, e vuole vivere poveramente: un certo don Lorenzo Milani”.
Milani iniziò con grande entusiasmo a stare coi giovani. Nel centro ricreativo condivideva con loro la vita di tutti i giorni, soprattutto il gioco del calcio e il ping pong. Presto si rese conto che non bastava. Quei giovani non avevano nulla. Mancava loro soprattutto un’adeguata istruzione. E così creò la sua prima scuola. Vi aderirono giovani operai, contadini. Fu per tutti una concreta possibilità di accrescere il proprio bagaglio culturale, migliorare la propria vita, permettersi di aspirare a un’esistenza diversa crescendo dal punto di vista lavorativo. Per Milani fu anche un mezzo di evangelizzazione. Grazie ad una migliore istruzione di chi aveva di fronte riusciva a spiegare meglio il Vangelo, a farsi comprendere con più facilità. Racconta Gesualdi che la scuola fu “lo strumento per dare la parola ai poveri perché diventassero più liberi e più eguali, per difendersi meglio e gestire da sovrani l’uso del voto e dello sciopero”. E ancora: “Con quella tenacia di cui era capace quando era convinto di avere intuito una verità andò a cercare uno ad uno tutti i giovani operai e contadini del suo popolo. Entrò nelle loro case, sedette ai loro tavoli per convincerli a partecipare alla sua scuola perché l’interesse dei lavoratori, dei poveri non era quello di perdere tempo intorno al pallone e alle carte come voleva il padrone, ma di istruirsi per tentare di invertire l’ordine della scala sociale”.
Ritratto di Don Milani
RSI Cultura 24.05.2023, 09:05
Attraverso la scuola spinse per far prendere coscienza ai giovani della necessità che divenissero loro i protagonisti del proprio futuro, decidendo di testa propria, imparando da soli a discernere il giusto dall’ingiusto. E questa determinazione la insegnava a tutti. Un giorno un ragazzo proveniente da una famiglia cattolica gli chiese: “Lei insegna anche a lui che è comunista e nemico della Chiesa?”. Rispose Milani: “Io gli insegno il bene, gli insegno a essere un uomo migliore e se poi continua a rimanere comunista, sarà un comunista migliore”.
La scuola non fu vista bene da tutti. Presto arrivarono critiche da dentro e da fuori la Chiesa. I suoi metodi, probabilmente, erano troppo innovativi per quei tempi. Per gli alunni era un professore-amico, che abolì le pene corporali in favore del dialogo e del sorriso. Nelle sue aule si studiava tutti assieme, chi era più avanti aspettava chi era indietro. Tutti dovevano essere pronti ad aiutare chi era più in difficoltà.
Le critiche e l’esilio
Milani aveva posizioni nette, a tratti radicali. In occasione delle elezioni amministrative del 1951 e delle politiche nel 1953 non rispettò la direttiva vaticana del voto non contrario alla Chiesa cattolica. In pubblico sostenne la libertà del voto e disse che tutti avrebbe dovuto esprimersi nelle urne secondo coscienza. La Santa Sede reagì immediatamente. Fu subito costretto ad abbandonare Calenzano. Venne mandato nell’isolata Barbiana. Era l’autunno del 1954, aveva 31 anni. Per la Santa Sede era un esilio, per lui un’occasione nuova per continuare la sua sfida contro tutte le ingiustizie sociali.
Barbiana è una frazione di Vicchio nel Mugello. Negli anni Cinquanta il paese era senza una sua scuola media. Era un territorio povero, tantissimi gli analfabeti. Non arrivava l’acqua, non c’era elettricità. Anche qui fondò una sua scuola aperta a tutti, a cominciare dai figli dei contadini che nulla avevano da portare in dote. Erano chiamati a frequentare tutto l’anno, ogni giorno per tutto il giorno. Barbiana era un luogo in cui crescere e formarsi senza distinzioni di classe, come ancora di fatto vigeva in molte delle scuole italiane dell’epoca. La scuola di Milani divenne per molti l’occasione per emanciparsi, per crescere, per prima immaginare e poi darsi un futuro diverso.
Lettera a una professoressa
Fu a Barbiana che, nel 1967, Milani scrisse assieme ai suoi alunni per la piccola casa editrice fiorentina LEF“Lettera a una professoressa. Si trattò di una riflessione a 360 gradi circa la necessità di riformulare e ripensare il sistema scolastico italiano, un vademecum per molti inseganti democratici che lo utilizzarono per le grandi battaglie per la scuola degli anni Settanta. Fu anche un testo che sancì l’inizio di una istruzione diversa, senza ingiustizie sociali, divisioni, autoritarismi, violenze psicologiche. Milani criticava la scuola anche perché aiutava i ricchi e discriminava i poveri. E lo facevano nonostante si erano succeduti in Italia governi democristiani. Ma la Costituzione predicava il diritto allo studio uguale per tutti. Ed alla Costituzione Milani si rifaceva per proporre un modello finalmente diverso, nuovo.
Intervista a Padre Nazareno Fabbretti
RSI Cultura 23.05.2023, 11:40
Barbiana, in sostanza, divenne un centro culturale unico e irripetibile. Già anni prima di “Lettera a una professoressa, del resto, Milani scrisse da Barbiana (era il 1958) Lettere pastorali, contributo per una Chiesa diversa, più aperta, che tuttavia la curia romana non accolse bene. Pur non vietandolo ufficialmente, fu impedita la pubblicazione del testo. Il Vaticano arrivò a definirla “una lettura inopportuna”.
La fine
Nel 1960 Milani si ammalò di un linfogranuloma che dopo sette anni lo portò alla morte. Anche da ammalato continuò senza sosta le sue battaglie. Nel 1965 scrisse una lettera ad un gruppo di cappellani militari toscani che avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”. La lettera provocò un putiferio; Milani fu rinviato a giudizio per apologia di reato. Fu poi assolto anche se dopo la morte la Corte d’Appello modificava la sentenza di primo grado e condannava lo scritto. Morì a Firenze il 26 giugno 1967. Aveva 44 anni.