Letteratura

L’implacabile oceano della vita

Joseph Conrad un secolo dopo. Una maniera di essere al mondo, fino all’estremo limite

  • 30 luglio, 09:59
  • 30 luglio, 09:59
Joseph Conrad.jpg
Di: Mattia Mantovani 

In un meraviglioso passo contenuto nei Memoirs di Joseph Conrad, editi anche in traduzione italiana col titolo Lo specchio del mare, si dice che la verità della vita nel suo complesso e di ogni singola esistenza umana non può che essere in ultima analisi sfuggente, elusiva, spesso inafferrabile nella sua più intima sostanza. Perché nel disordine di questo basso mondo, osserva l’ex marinaio Conrad, «voci e forme finiscono per confondersi nel crepuscolo dell’esistenza, misterioso come un oceano oscurato dalle nubi, mentre lontanissima splende abbagliante la lucentezza delle speranze supreme, affascinanti e immobili, sulla linea distante dell’orizzonte».

Cuore di tenebra - Joseph Conrad

RSI Cultura 18.03.2023, 15:55

Basterebbero queste parole, in occasione del centenario della morte di Conrad, per rispondere in maniera perentoria alle domande che si pongono di solito quando ricorrono gli anniversari tondi dei grandi protagonisti della storia letteraria: E’ ancora attuale? Cos’è rimasto della sua opera? C’è ancora qualcosa di fondamentale che parla alla nostra sensibilità? Nel caso di Conrad, la risposta -oltre che perentoria- è semplicissima: è rimasto tutto.

Jozev Teodor Konrad Korzeniowski (Joseph Conrad è la forma anglicizzata del nome), nato il 3 dicembre 1857 nella città di Berdicev in Ucraina (all’epoca in territorio polacco), è morto il 3 agosto 1924 nei pressi di Canterbury. Dopo le prime esperienze in marineria a Marsiglia e nel Sud della Francia, si stabilì in Inghilterra, nel 1886 divenne cittadino britannico e cominciò a scrivere in lingua inglese (la sua terza lingua, dopo il polacco e il francese). La sua carriera a bordo delle navi -soprattutto sulle rotte dei Mari del Sud- terminò nel 1894, poi si dedicò interamente alla scrittura. Nel centenario della morte, si può affermare senza tema di smentita che non è “semplicemente” un classico. E’ piuttosto un contemporaneo del futuro, un ideale compagno di strada in un crepuscolo di apocalisse, perché ogni sua pagina ci parla oggi più che mai con vibrante intensità, con un’eco familiare e insieme terribilmente sinistra.

Lo stesso discorso vale per i suoi personaggi: sempre più vivi, concreti e attuali, dal Kurtz di Cuore di tenebra (poi ripreso dalla coppia Francis Ford Coppola/Marlon Brando in Apocalypse Now) al capitano MacWhirr di Tifone, da Lord Jim all’io narrante de La linea d’ombra, solo per citare alcuni esempi. Ottocentesco nelle premesse ma totalmente novecentesco negli esiti, Conrad si è infatti inoltrato negli abissi più inospitali del “cuore di tenebra” della condizione umana (come dice il titolo del suo racconto più famoso), e poi ne è riemerso con verità granitiche, inscalfibili, davvero senza tempo. Verità scritte “dopo”, ma proprio per questo eternamente valide, come ricordava giustamente Isaac Bashevis Singer: perché si scrive “dopo” ma si vive anche “dopo”, quando il racconto degli eventi individua una parvenza di trama e quindi di significato negli eventi stessi.

E’ un assunto che vale per tutta la sua produzione a partire da Il negro del Narcissus, del 1897, con la celebre introduzione nella quale Conrad ha espresso i principi di una personalissima quanto originale poetica, fondata sulla percezione del carattere enigmatico della condizione umana. Al di là «dell’inquieto, caotico e inafferrabile fluire della vita» pare che vi siano soltanto «il buio e il nulla», quindi il compito del racconto non può che consistere nel tentativo di «parlare ai sensi» e «far udire, sentire e vedere», restituendo e reinventando nella parola scritta «una fugace fase di vita strappata alla corsa spietata del tempo».  Il buio, la “tenebra” e il suo “cuore” non sono un aspetto della condizione umana. Sono “la” condizione umana. Il compito della letteratura, secondo Conrad, consiste nell’avvicinarsi al più possibile alla stillness of life, l’immobilità primordiale e imperscrutabile della vita.

Conrad ha maturato questa concezione poetica durante i lunghi anni di marineria, quando ha solcato le acque di mezzo mondo e ha percepito nel mare, come scrisse poi in Gioventù, la dimensione fondante e archetipica dell’esistenza: quel mare che «con la sua maestosa malinconia sa sussurrarti all’orecchio, ruggirti contro e toglierti il respiro». Così inquadrato e circoscritto, nonché affrancato da un certo canone che lo vorrebbe ridotto al rango di autore di storie marinare e romanzi d’avventura, Conrad costituisce il tipico esempio di un grandissimo autore che ha scritto “dopo”, perché la sua opera letteraria è strutturata in larga parte come una reinvenzione delle esperienze vissute negli anni di marineria.

Lo stacco tra il “prima” e il “dopo”, tra la vita vissuta e il racconto, nel suo caso è molto netto e facilmente individuabile. Se si prescinde dal breve periodo coincidente con la stesura degli abbozzi del primo romanzo, La follia di Almayer, pubblicato nel 1895, Conrad termina come marinaio e comincia come scrittore. La sua vita in marineria si compone allora in una trama e assume una forma ben definita, perché Conrad ha elaborato e perseguito non solo una propria personale poetica, ma anche un’autonoma ed originale ricerca del mot juste di derivazione flaubertiana, laddove per mot juste, “parola esatta”, bisogna intendere non già il ghirigoro stilistico ma piuttosto l’aderenza della scrittura alla realtà, la forma che diventa essa stessa contenuto e veicolo espressivo.

Si tratta di un’acquisizione solo apparentemente scontata, perché si dimentica troppo facilmente che la “verità” della vita e delle cose, comunque la si voglia intendere e declinare, è sempre una forma, un ritmo che ne dice la presenza oppure la latitanza. E’ soprattutto per questo motivo che i personaggi di Conrad -basti pensare alla normalissima follia di Kurtz in Cuore di tenebra, oppure all’amara e letale consapevolezza di Lord Jim- rappresentano dei tipi umani nei quali è possibile riconoscersi immediatamente. Ma c’è un aspetto ancora più dirimente: queste caratteristiche, assolutamente uniche, fanno di Conrad non soltanto un grandissimo scrittore che ci ha regalato libri straordinari e pagine indimenticabili.

L’aggettivo “conradiano” e l’espressione “Conrad”, infatti, un po’ come l’aggettivo “stendhaliano” e l’espressione “Stendhal”, indicano piuttosto un approccio alla realtà e una maniera di essere al mondo. Se per Stendhal essere al mondo significa preservare la fantasia e l’immaginazione dalla letargia della consapevolezza e del freddo raziocinio, per Conrad significa invece confrontarsi costantemente con “l’implacabile oceano della vita umana” (la definizione è sua), con le sue tenebre, i suoi abissi, le sue linee d’ombra, i suoi tifoni e le sue tempeste, nel tentativo di pervenire a una verità che non sia soggetta al processo di corrosione e corruzione operato dalla salsedine del tempo.

E’ un aspetto che il giovane Italo Calvino aveva colto perfettamente in alcune considerazioni introduttive alla tesi di laurea dedicata a Conrad, nel 1947: «Di mare, nell’esame particolareggiato della sua opera, dovremo attraversarne molto; sia quello geografico, che non risparmierà  le coste più lontane e disparate, sia quello morale, che ci darà l’illuminazione di verità umane più profonde». Esattamente due anni prima, un altro giovane e attentissimo lettore del rango di Silvio D’Arzo si era soffermato sull’«austera lezione» che si poteva e doveva ricavare dalle pagine di Conrad: «Non ci sono paradisi. Umano il cercarli, umanissimo il crederci, ma di un triste ridicolo il pensiero di trovarli davvero».

Una simile dimensione si profila ovviamente nelle sue opere più celebri, ma se proprio si volesse individuare l’opera di Conrad che esprime e sintetizza tutta la sua vastissima produzione, la scelta cadrebbe con ogni probabilità su Lo specchio del mare (in particolare sul primo capitolo, intitolato Atterraggi e partenze), sul racconto breve Un avamposto del progresso, che anticipa ambienti e situazioni poi sviluppati ma anche parzialmente stemperati in Cuore di tenebra, e più ancora sul lungo racconto All’estremo limite, forse il più “conradiano” di tutti, a partire dal titolo. Uscito nel 1902 col titolo The End of the Tether, che letteralmente significa “All’estremo della cavezza” e può essere tradotto anche con “L’ultimo anello della catena” oppure “L’ultimo ingranaggio del sistema”, All’estremo limite è di gran lunga meno conosciuto rispetto ai coevi Cuore di tenebra e Gioventù, pubblicati nel medesimo volume nell’edizione originale.

Nel mondo di Babele la traduzione è imprescindibile, e ogni testo narrativo o poetico assume inevitabilmente una nuova connotazione a seconda di chi lo traduce. Lo dimostra in maniera molto chiara proprio All’estremo limite, che nella traduzione  del compianto Gianni Celati, pubblicata nel 2017, sembra un libro completamente nuovo rispetto a quello che si era letto nelle precedenti traduzioni. Beninteso, lo si era amato già a suo tempo, anche se certe traduzioni, come quelle pubblicate da Mursia, erano delle semplici quanto meritorie traduzioni di servizio (un po’ come le vecchie traduzioni dei classici russi), ma adesso lo si ama per così dire di un amore diverso, più consapevole, perché Celati, al quale si deve anche la traduzione de La linea d’ombra, è riuscito davvero a calarsi nel cuore di tenebra dell’universo linguistico di Conrad.

Il protagonista di All’estremo limite è uno dei più grandi personaggi conradiani: il capitano Whalley, anziano e quasi cieco, scettico e disincantato, che compie l’ultimo viaggio in mare a bordo della vecchia nave Sofala portando con sé un segreto apparentemente inconfessabile (ma in realtà banalissimo: il controverso riscatto di una polizza assicurativa), giunge “all’estremo limite” e muore a causa di un naufragio lungamente cercato, perfino desiderato, anche se a ben vedere muore di troppa vita vissuta, di troppe cose viste, di troppa morte.

Cuore di tenebra - Joseph Conrad

RSI Cultura 18.03.2023, 15:55

Si avvertono echi del Melville di Billy Budd e delle Encantandas, ma soprattutto ci sono molti punti di contatto con un altro libro magistralmente tradotto da Celati: Il richiamo della foresta di Jack London. Lo stesso Celati ha istituito un paragone tra le due opere e ha fatto giustamente notare che in entrambe si avverte qualcosa come una melodia ancestrale, un canto dell’illimitato, dello spazio e del tempo, che trasporta in una dimensione nella quale non esistono più le assurde e vane pretese degli uomini. La vicenda di Whalley, che in questo senso è davvero molto novecentesca e molto simile a quella del cane Buck, si muove tutta sulla sottilissima e tipicamente conradiana linea d’ombra che separa commedia e tragedia, realtà e rappresentazione della realtà stessa.

La traduzione di Celati riesce a restituire proprio questa dimensione, che nelle precedenti traduzioni era solamente accennata, e lo fa nell’unica maniera possibile, riproponendo anche in italiano i tic sintattici e lessicali, le scansioni ritmiche e perfino le svagatezze e le piccole imperfezioni dell’inglese acquisito di Conrad. E’ un procedimento che permette di apprezzare la tipica misura musicale, il cosiddetto beat, dei grandi testi letterari anglosassoni, di modo che alla fine ci appare terribilmente vicino anche il messaggio che Conrad ha voluto trasmettere con questo racconto e ha espresso in uno dei passi maggiormente rivelatori: «Tutto considerato, gli uomini non erano cattivi. Erano soltanto stupidi e infelici».

Alcuni anni prima, in una lettera indirizzata all’amico Robert Graham, Conrad aveva svolto alcune considerazioni che spiegano il personaggio di Whalley e rivelano moltissimo della sua idea dell’essere al mondo: «Il nostro rifugio è nella stupidità, nell’ubriachezza di qualunque genere, nella menzogna, nelle fedi, nel delitto, nel furto, nelle riforme, nelle negazioni, nel disprezzo. Non c’è conoscenza o speranza. C’è solo la coscienza di noi stessi che ci guida in un mondo che, visto in uno specchio concavo oppure convesso, è sempre soltanto un’apparenza vana e fluttuante». Insieme all’“orrore” evocato da Kurtz in Cuore di tenebra, si tratta di considerazioni che dicono tutto o quasi, perché la verità definitiva su Whalley e tutti gli altri personaggi e alter-ego, che hanno solcato “l’impalcabile oceano della vita”, è contenuta nei versi de La regina delle fate di Edmund Spenser, che Conrad ha posto in esergo a Il pirata -il suo ultimo romanzo, pubblicato un anno prima della morte- e ha scelto come epitaffio per la tomba nel cimitero di Canterbury: «Sleep after toyle, / Port after stormie seas, / Ease after warre / And death after life, / Does greatly please»; «Dopo la fatica il riposo, / Dopo mari tempestosi un porto, / Dopo la guerra la quiete / E dopo la vita la morte, / E’ il vero conforto».

Ti potrebbe interessare