Letteratura

Le profetiche memorie del “pazzo” di Gogol’

Meschinità, bassezza morale, noia e volgarità: Popriščin e il grado zero dell’umano

  • 24 settembre 2024, 17:34
Nikolaj Vasil'evič Gogol' in un celebre ritratto di Fyodor Antonovich Moller  1840  Galleria Tretyakov Mosca.jpg
Di: Mattia Mantovani 

Siamo tutti usciti dal “cappotto” di Gogol’, ha detto molto giustamente Fëdor Dostoevskij a proposito dell’illustre “antenato”, indicando nell’autore de Le anime morte e dei Racconti di Pietroburgo (tra i quali il celeberrimo Il cappotto) l’iniziatore della grande letteratura russa che nella seconda metà dell’Ottocento ha gettato lo scandaglio nelle profondità più abissali della condizione umana. E’ proprio vero, siamo usciti tutti dal “cappotto” di Gogol’ e dai Racconti di Pietroburgo, al punto che le considerazioni di Dostoevskij meritano di essere parzialmente integrate: alla presente altezza cronologica, dopo quasi due secoli, Nikolaj Vasil’evič Gogol’ non è più un “antenato” ma piuttosto un contemporaneo, perfino un contemporaneo del futuro.

Lo si nota, in particolare, leggendo o rileggendo le Memorie di un pazzo, il più realistico e insieme il più visionario dei suoi racconti (lo si può leggere nell’insuperata traduzione di Tommaso Landolfi in un volume pubblicato da Adelphi, che propone i cinque Racconti di Pietroburgo e due appendici). Rilette oggi, infatti, le Memorie di un pazzo riportano alla mente una questione sollevata non a caso anche da Dostoevskij nel racconto Il coccodrillo e poi ripresa nei tutt’altro che archeologici anni Sessanta del secolo scorso da Primo Levi nelle Storie naturali e da Ennio Flaiano.

Si tratta di una questione che forse all’epoca di Levi e Flaiano – si era al culmine del boom economico e si viveva nel paradiso artificiale del “tenore di vita” – poteva sembrare provocatoria e paradossale, mentre sessant’anni dopo ci appare del tutto plausibile: in ultima analisi, prescindendo dalle oggettive e indiscutibili conquiste, cosa avrebbe mai prodotto un secolo di positivismo, tecnologia e progresso?

Quanto alla risposta, all’epoca poteva sembrare assurda, mentre oggi ci appare tutto sommato ragionevole e improntata a una valutazione lucida – nel senso di non settaria, non ideologica e non sottomessa a qualche cosiddetta Narrazione – della realtà: un secolo di positivismo e tecnologia ha prodotto una sempre minore fiducia nel progresso e una sempre maggiore diffidenza al cospetto delle verità dimostrabili (e magari strumentalizzabili). Lo stesso Flaiano ha sintetizzato il tutto in un simpatico quanto urticante aforisma: «Anche il progresso, dopo lunga e sofferta riflessione, votò contro». Non contro le proprie conquiste, ovviamente, ma contro le proprie mitologie.

Le Storie naturali di Primo Levi e le considerazioni dello scettico realista Flaiano si inseriscono a pieno titolo in un prestigioso parterre du roi che comprende tra gli altri il già ricordato Dostoevskij, Strindberg, Kafka, il Jules Romains de Il trionfo della medicina (capolavoro attualissimo e assolutamente da riscoprire), il ragionier Ugo Fantozzi di Paolo Villaggio e non da ultimo proprio Gogol’, al quale spetta anzi il diritto di primogenitura per l’invenzione di un personaggio come Čičikov de Le anime morte e dei protagonisti dei cinque racconti ambientati a Pietroburgo.

Amatissimo e quasi venerato da Paolo Villaggio, che lo considerava a giusta ragione il maestro della propria educazione da adulto, Gogol’ è stato infatti il primo a capire -declinando la consapevolezza nel segno di un gustoso e surreale umorismo- che negli abissi dell’animale uomo e nel baraccone del cosiddetto consorzio civile c’era qualcosa di sostanziale che non funzionava, o meglio: che non aveva mai funzionato, e avrebbe funzionato sempre peggio con l’avanzare del progresso e delle “magnifiche sorti”.

Da questo punto di vista, il profetico e canagliesco Gogol’ è più che mai un nostro contemporaneo: in primo luogo, perché il secolo di positivismo ricordato da Levi e Flaiano è diventato nel frattempo più di un secolo e mezzo, e in questi ultimi cinquant’anni la faccenda, se mai possibile, si è ulteriormente incanaglita; in secondo luogo, perché sembrano ormai totalmente saltate coordinate basilari come il buon senso, il valore fondante e dirimente della memoria, la logica (seguendo taluni dibattiti, viene da chiedersi cosa sia rimasto del principio di non contraddizione e dell’articolazione laica del pensiero), la capacità di distinguere non solo il vero e il falso, ma anche il comico e il tragico, il reale e il surreale, la serietà della vita e le sue infinite derive in chiave grottesca e ridicola.

Come in ogni grandissimo scrittore, anche in Gogol’ ci sono alcune parole che si potrebbero definire “originarie”, perché ne contengono ed esprimono tutta la verità umana e poetica. Nel suo caso, le parole sono due: la prima è skuka, che significa “noia” nel senso più ampio e designa la collosa e vischiosa eternità dei momenti vuoti, la percezione di un tempo sospeso e di una vita che non va da nessuna parte, simile a una giostra di apparenze che rimandano ad altre apparenze e poi ancora ad altre apparenze, fino al nulla; la seconda parola è invece pošlost, che letteralmente significa “volgarità” ma per estensione indica la meschinità, la miseria caratteriale, la bassezza umana e morale.

Perché la volgarità, come ricordava Jack London in un memorabile passo di Martin Eden, non è banalmente riconducibile al solo turpiloquio oppure all’espressione colorita, che in taluni casi – sempre secondo London, ed è difficile non essere d’accordo – costituisce forse l’unico modo per etichettare senza false ipocrisie una certa trivialità purtroppo immanente alla vita. La volgarità è piuttosto un modo di essere e rapportarsi alla realtà.

Si è volgari, insomma, quando si prescinde dal carattere tragico della realtà stessa e si finge di vivere in una specie di indifferenziato “come se…”: come se la vita umana fosse una mera astrazione, al riparo dai concreti dilemmi e dalle laceranti contrapposizioni che invece la sostanziano. Prendendo quindi a prestito un sostantivo coniato da Paolo Villaggio per la figura del ragionier Ugo Fantozzi, ci si può permettere di unire skuka e pošlost nel concetto socio-antropologico di “merdaccia”: una parola che non sarà particolarmente elegante e “letteraria”, e anzi è piuttosto volgare, ma in quanto tale rende piuttosto bene l’idea e restituisce i tratti di fondo di una realtà profondamente volgare.

A proposito di volgarità: l’io-narrante e protagonista delle Memorie di un pazzo, il funzionario di basso rango ma di smisurate ambizioni Popriščin, esattamente come Čičikov, Akakievič e gli altri personaggi creati dalla fantasia di Gogol’, è una “merdaccia” per il solo fatto di esistere, di essere nel mondo, schiacciato vessato e insolentito da assurde occorrenze. In misura non minore di Čičikov e Akakievič, il fegatoso,  sventurato e “pazzo” Popriščin si rivolge al lettore con parole davvero inequivocabili: non c’è scampo a questo mondo, sembra infatti dirci con le sue sgangherate memorie, la noia e la mediocrità succhiano la vita. «Ahi, ahi!... Vabbé, vabbé, silenzio!»: il povero Popriščin non trova altro modo per rispondere ai continui schiaffi del destino.

La “merdaccia” Popriščin, tra l’altro, è davvero il più fantozziano dei personaggi di Gogol’: divorato dal senso di inferiorità e dall’invidia verso i colleghi di rango superiore, che godono di un maggiore prestigio sociale, considera come un grandissimo privilegio l’incarico di temperare, una volta alla settimana, ogni mercoledì, le penne d’oca del superiore (il futuro “megadirettore” di Fantozzi), della cui figlia è perdutamente quanto vanamente innamorato: «Oggi è mercoledì, giorno in cui lavoro nello studio del nostro direttore. Arrivato a bella posta in anticipo, mi sono seduto e ho rifatto la punta a tutte le sue penne. Il nostro direttore dev’essere un uomo davvero molto intelligente. A ogni parete, nel suo studio, ci sono scaffali pieni di libri. Di alcuni ho letto il titolo: tutta scienza, cose irraggiungibili per quelli come me…». Non siamo molto lontani dalla scena in sala mensa, quando l’infame e crudelissimo megadirettore Catellani, dopo aver subissato di improperi il povero Fantozzi, si avvia verso l’uscita e viene salutato in questo modo dallo stesso Fantozzi e dagli ineffabili colleghi Filini e Calboni: «E’ un bel direttore! E’ un santo, un apostolo! Evviva!».

Le memorie di Popriščin si compongono pagina dopo pagina, con scansioni temporali stravaganti e improbabili (si parte dal 3 ottobre di un anno imprecisato e si arriva al “43 aprile dell’anno 2000”, all’“86 marzottobre” e un “febbraio” scritto al contrario, anche se un “gogoliano” doc come Guido Ceronetti le trovava assolutamente realistiche), in una teoria di frustrazioni e sogni di gloria che a un certo punto si dissolvono in fantasie sempre più assurde. Una fantasia, in particolare, che forse è l’apice dell’intera produzione di Gogol’: l’esilarante carteggio tra due odiose e petulanti cagnoline, Fidéle e Maggie (due autentiche carogne, che si chiamano vicendevolmente ma chére), dal quale Popriščin apprende che la giovane amata andrà in sposa a un altro uomo, ovviamente ricco e altolocato.

Anche perché è semplicemente impensabile che la giovane amata (di nome Sophie, e peraltro ben poco avvenente) vada in sposa a un sordido impiegatuccio di basso lignaggio, che Fidéle descrive in questi termini a Maggie: «Ah, ma chére, sapessi che mostro! Tale e quale a una tartaruga in un sacco! Ha un cognome stranissimo. Sta sempre seduto e tempera la penne. Capelli che sembrano fieno. Va sempre in giro a sbrigare commissioni al posto del domestico». E’ molto fantozziano, tra l’altro, anche il riferimento al “cognome stranissimo”. Lo sventurato ragioniere di Paolo Villaggio si sente infatti chiamare in tutti i modi, salvo quello giusto: Fantocci, Bambocci, Pupazzi, perfino Bacherozzi.

03:34

Lettere scontrose... a Akakij Akakievič

Lettere scontrose 23.12.2021, 09:40

  • Alessandro Robecchi

Esauriti tutti i vari «Ahi, ahi!... Vabbé, vabbé, silenzio!», a Popriščin rimangono soltanto lo sdegno, una rabbia sterile e impotente e l’ approdo nel territorio della follia. Rinchiuso in un manicomio e sottoposto a cure brutali, Popriščin crede di essere il re di Spagna, si occupa degli “affari di Stato” e prova una sincera angoscia per la sorte della Luna: perché «domani alle sette si verificherà uno strano evento, la Terra si poserà sulla Luna», che però è abitata dai nasi degli esseri umani (l’immagine verrà poi ripresa da Giuseppe Berto ne La fantarca, storia di un’improbabile spedizione su una Luna già abitata, al cui ingresso sta un cartello con la scritta “tutto esaurito”).

Il monologo finale, almeno all’apparenza, è tutto un crescendo apocalittico: «Salvatemi, portatemi via! Datemi una trojka di cavalli veloci come il vento! Prendi posto, cocchiere, suona, mio sonaglio, fendete l’aria, cavalli, e portatemi via da questo mondo! Lontano, più lontano, dove non si veda più nulla, nulla!». Tuttavia per il povero Popriščin (e per tutti noi, usciti dal “cappotto”) non c’è più spazio per la tragedia, ma solo per la farsa, come appare evidente dall’assurda annotazione conclusiva: «Ma lo sapete che il bey di Algeri ha un bitorzolo proprio sotto il naso?». Viene da pensare a una celebre frase del Pinocchio di Giorgio Manganelli: «Tutto documentato. Tutto arbitrario».

Resta da chiedersi cosa scriverebbe oggi, dopo quasi due secoli di “magnifiche sorti”, un redivivo Popriščin nelle sue nuove e aggiornate memorie. Difficile dirlo, ma si può avanzare un’ipotesi. Nelle memorie non ci sarebbero più né il direttore né sua figlia, né i colleghi né le odiose e petulanti cagnoline, sostituiti da “Chief Executive Officer”, “Content Creator”, “Influencer”, finti animali in 3-D e così via, tutti ovviamente “molto attivi sui social” (il volgarissimo vocabolario della neolingua è molto ampio).

Quanto al monologo finale, si chiuderebbe non già con l’assurdo e surreale riferimento al bey di Algeri, ma piuttosto con le realistiche parole che il suo ideale erede Paolo Villaggio ha posto in chiusura del saggio Storia della libertà di pensiero, pubblicato nel 2008: «E’ purtroppo facile prevedere che una nuova terribile, invisibile e subdola forma di dittatura ci porterà in pochi anni a quella comoda condizione dell’assoluta mancanza di libertà di pensiero. Forse saremo più felici, ma vivremo incatenati in lunghe file a costruire le nuove piramidi». Ma in definitiva non è nemmeno necessario: bastano le Memorie di un pazzo, vecchie (si fa per dire) di quasi due secoli, per riconoscere in Nikolaj Gogol’ un contemporaneo del futuro, un compagno di strada in un crepuscolo di apocalisse, lo specchio di tutte le nostre miserie e della nostra coscienza irrimediabilmente infelice.

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