È un libro che racconta una mitologia musicale, ma si apre con le parole di uno stilista.
Nelle prime pagine di Swinging 60s c’è una foto di Paul Smith nella sua prima, piccola boutique, nata a Londra nel 1970. «Allora si era abbastanza coraggiosi da sperimentare qualsiasi cosa ci venisse in mente: lo chiamavamo sparare all’anca», scrive Smith. E a dire il vero non sappiamo dove abbiano mirato Beatles e Rolling Stones, Dusty Springfield e Marianne Faithfull, Who e Kinks, Cream e Pink Floyd. Ma sappiamo che hanno colpito le stelle.
Swinging 60s (editore, la milanese Hoepli) racconta quelle star della musica che avrebbero cambiato il secolo, ma allarga il discorso al cinema, alla moda, all’arte, alla cultura tutta della Londra degli anni Sessanta: è un saggione pesante quasi 350 pagine, ma leggero nel racconto, e colmo di immagini d’epoca. L’hanno scritto Franco Dassisti e Michelangelo Iossa con Tiziana Cipelletti, Michela Gattermayer e Matteo Guarnaccia, ognuno capace di fornire un pezzo del gigantesco puzzle del decennio che inizia con il beat e finisce nella psichedelia.
Il decennio irripetibile della Swinging London
Si dice sempre che il tempo è ciclico le cose si ripetono, però forse ci sono dei momenti che sono irripetibili, dice Franco Dassisti: «Sicuramente quello della Swinging London è un momento irripetibile: ci sono poche città nella storia dell’umanità che hanno assunto il ruolo di capitale del mondo, e Londra è una di queste. Il Novecento è stato definito il secolo breve, perché tutto si è consumato con tempi molto veloci, e anche quel decennio in cui Londra è diventata il generatore di mode, di musica, di cinema, di costume, di cambiamenti, è stato veloce e irripetibile. Sicuramente un unicum.»
Rimane dunque da chiedersi perché sia successo proprio lì, proprio in quel momento. «Non c’è mai solo un perché – continua Dassisti – credo sia importante ricordare che Londra è uscita dalla seconda guerra mondiale distrutta nelle strutture, bombardata, piegata… ma non spezzata. A testa alta, orgogliosa, vogliosa di rifarsi. E sicuramente ha giocato un ruolo chiave l’assegnazione del 1948 delle Olimpiadi, che sono state un simbolo. Poi ci sono state un paio di decisioni governative che hanno fatto la differenza. Una è stata l’abolizione del servizio di leva: i ragazzi degli anni Cinquanta si sono trovati improvvisamente, a vent’anni, con del tempo libero a disposizione. Tempo che gli altri, quelli delle generazioni precedenti, non avevano avuto. La seconda motivazione sociale e politica importante è che il dopoguerra è stato il periodo della scolarizzazione: in una società come quella inglese, improvvisamente i figli dei poveri, degli operai, della classe proletaria, potevano studiare. Però bisognava inventarsi una scuola che li comprendesse, che li coinvolgesse. E per questo motivo furono inventate, o meglio ristrutturate, le School of Art, queste scuole superiori che permettevano ai figli del proletariato di continuare gli studi, di levarsi dai pasticci della strada… Diciamolo chiaramente, all’inizio era quasi un deposito, un parcheggio: non teniamo ‘sti ragazzi in mezzo alla strada, mandiamoli a fare le arti, che tanto con quelle non si mangia... Invece è successo che questi talenti, interpretando la scuola con una certa libertà, magari non hanno avuto rendimenti scolastici enormi, ma si sono connessi: il musicista, l’artista, il cineasta, si sono conosciuti tra loro… E così è venuta fuori una classe capace di generare arte, arte popolare soprattutto, nei dieci anni successivi. Gli ingredienti dell’esplosione di questa swinging London, che ancora non sapeva di chiamarsi così, erano questi: c’era una nuova classe di giovani, che prima non esistevano. C’erano questi ragazzi, che si erano connessi tra loro in questa sorta di crogiuolo nel quale venivano fuori collaborazioni istintive. Da lì sono nati mezzi Pink Floyd, parte dei Beatles, eccetera. Quelle scuole hanno sfornato soprattutto musicisti, tantissimi, ma anche la fondatrice del Free cinema Lorenza Mazzetti, per dirne una, è uscita da quell’esperienza. Poi serviva, certo, un Big Bang».
5 Ottobre 1962: Bond + Beatles
Il Big Bang, secondo gli autori di Swinging 60s, è il 5 ottobre 1962: il giorno dell’uscita di Love Me Do, e di Agente 007 – Licenza di uccidere. I Beatles e James Bond, complementari e antitetici.
Continua Dassisti: «I Beatles rappresentano, seppure in maniera educata, una rivoluzione musicale che poi diventa anche estetica, di costume, di moda. Certo, inizialmente è una band vestita bene, pettinata in un certo modo, pulita, che però innova e rivoluziona la musica. Proprio il concetto stesso di musica, eh: questa derivazione dello skiffle, i battiti velocizzati del beat, riesce a creare qualcosa che non c’era. Siamo già nel campo della rivoluzione, qualcosa che trascina i giovani che vogliono essere diversi da quelli di prima. James Bond invece è la restaurazione, nel senso che James Bond è l’agente segreto al servizio di Sua Maestà: è quanto di più organico alla corona, al potere, all’establishment britannico. È molto figo, però è assolutamente conservatore. Quindi due mondi che guardano due nazioni diverse, ma insieme rappresentano l’Inghilterra e rappresentano la capacità dell’Inghilterra di affermarsi nel mondo. Assolutamente complementari nel disegnare un Paese che sapeva essere rivoluzione e controriforma al tempo stesso».
Ma quel Big Bang, è chiaro, non arriva dal nulla: «Ovviamente le cose non succedono improvvisamente. Ci sono gli anni Cinquanta, la culla in cui matura l’esplosione di Londra: sono anni in cui alcuni movimenti cominciano a guardare le generazioni precedenti con un senso di critica molto forte. Penso agli Angry Young Man nel teatro, a John Osborne. Look Back in Anger, Ricorda con rabbia, la sera della prima fa scappare metà dei critici dal teatro. L’altra metà invece è entusiasta, e dice: ma cos’è questa cosa che ho appena visto? Improvvisamente il teatro e poi il cinema si fanno in mezzo alla gente, nei mercati, nei quartieri proletari, con le case ancora distrutte dalla guerra. Si racconta una generazione giovane che non trova il suo posto nel mondo, che paga i danni di una guerra che non ha voluto. Avere vent’anni nel 1950 voleva dire averne dieci nel 1940 e quindi insomma, cosa puoi pensare quando ti aggiri da adolescente in un mondo distrutto? Ecco, ancora l’Inghilterra non è in grado di dare risposte alle domande di questi ragazzi, ancora queste domande non si trasformano in nuovi stili, in musica, moda… Però in quel periodo l’Inghilterra è invasa dai film americani, che in qualche modo mostrano giovani che si stanno chiedendo le stesse cose che si chiedono i giovani inglesi, e molti rimangono colpiti dal ribellismo di Marlon Brando nel Selvaggio, da quello di James Dean, più silenzioso e interiorizzato, oppure da quello di Elvis Presley, che si muove al ritmo dei colpi di bacino e della musica. Certo, sono tre americani, ma foraggiano l’immaginario collettivo dei giovani inglesi, che dal loro lato dell’Oceano hanno ancora Laurence Olivier che fa Shakespeare, al cinema. I ragazzi invece guardano verso l’altra costa, guardano questa ribellione a suon di rock and roll. Ecco, queste stille che arrivano dagli Stati Uniti vengono interiorizzate e a loro volta saranno il patrimonio iconico che servirà a questi giovani per scatenare quella ribellione, quella voglia di altro, di nuovo, di rivoluzionario, che sfocia negli anni Sessanta.»
Michelangelo Antonioni e Herbie Hancock
Musica e arti visive si rincorrono, nel decennio della Swinging London, e attraggono geni da tutto il mondo. Uno dei film simbolo di quell’epoca, Blow-Up, è diretto e scritto da due italiani, Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra, e musicato da un americano: Herbie Hancock. Non è un’esagerazione, spiega Dassisti, dire che «Lì, c’è la storia. Scrivendo il libro, continuavo a pensare a Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra che girano per Londra, che passano le serate nei club, ad ascoltare band, meravigliose. Come fa a non venirti voglia di essere lì? Ci sono tanti aneddoti, dentro il capitolo su Blow-Up, che è il film simbolo della Swinging London. Già solo pensare al fatto che Antonioni voglia scritturare Herbie Hancock… immaginati un italiano che segue il jazz, ma non quello paludato, quello nuovo, che bisognava andarsi a cercare. Forse ce lo dimentichiamo, ma ai tempi non c’era internet! Herbie Hancock è il primo a rimanere stupito, quando Antonioni lo cerca. E Hancock viene a Londra per registrare la colonna sonora. Ma quando va in studio, non è convinto: perché a Londra i musicisti sono diversi da quelli con cui suona di solito. Gli sembra che manchi quell’incrinatura, quel graffio tipicamente americano, tipicamente newyorkese. Quindi smonta tutto, baracca e burattini e va a registrare nuovamente la colonna sonora a New York con i suoi musicisti fidati. Lì sì, ottiene un risultato molto più sporco, molto più aggressivo. Però poi, sorpresa: la sera della prima Herbie Hancock si rende conto che di tutti i suoi temi, di tutte le cose meravigliose che aveva registrato – e ri-registrato – è rimasto solo qualche frammento, qualcosa sui titoli di testa, sulla scena di apertura… e il resto, dov’è finito?! Insomma, rimane molto deluso. Non che Antonioni non fosse convinto della bontà del suo lavoro, ma aveva deciso di usarlo, come dire, sottotraccia. Quindi, delusione per Herbie Hancock. Anche se poi la stessa colonna sonora, nella versione integrale registrata su disco, avrà anche un discreto successo di vendite».
La fine della Swinging London
Swinging 60s racconta questo: un Big Bang, una città piena di musica, una parabola di geniale creatività. E poi, una fine. Arrivata ineluttabile, senza un motivo preciso. «La spiegazione più semplice sarebbe che i movimenti nascono e a un certo punto finiscono perché arriva qualcos’altro – dice Dassisti – e in effetti anche lì è arrivato altro: la psichedelia, l’hard rock, musica, mode e modi che hanno superato il beat, superato la swinging London, superato i capelli a caschetto... Questo è anche fisiologico, in qualche modo. Poi se vogliamo vedere più nel dettaglio, sicuramente quello che ha spostato l’asse è stato l’uso di sostanze psicotrope diverse, l’LSD… in qualche modo, il coronamento dell’esperienza beat è l’entrata in un altro mondo, più onirico. Succede agli stessi Beatles, certo. E poi c’è l’avvento dei Pink Floyd e degli altri gruppi che esploderanno nei primi Settanta. C’è sicuramente una voglia di superare quella che inevitabilmente era diventata anche un’estetica superficiale. Perché la Swinging London è stata anche moda, minigonne, Twiggy, negozi, fotografi, modelle. Tutto è stato rivoluzionario, in un primo momento. Poi probabilmente questa rivoluzione era diventata istituzione, si era imborghesita, era diventata estetica di superficie, togliendo forza interiore al movimento, se possibile.»
Dopo la fine dei Sessanta, è stata costruita la narrazione, la storicizzazione dell’esperienza della Swinging London. Ma è stata fatta nel modo giusto?
«C’è una frase attribuita a Paul McCartney che dice qualcosa tipo, ogni volta che ci poniamo di fronte a quel periodo, ci sembra di essere di fronte a un periodo nuovo. Nel senso che quelle cose, quella musica, quel cinema sarebbero nuovi anche oggi. Hanno un’incredibile qualità dirompente. Diciamo che è una frase che fa contraltare al luogo comune che dice che se ti ricordi gli anni Sessanta, vuol dire che non li hai vissuti. Esatto. In realtà i racconti ci sono, quell’esperienza è stata raccontata a mano a mano che ci si allontanava, da una parte mitizzandola, dall’altra in maniera più documentata, quasi documentaria. Credo che per capire la swinging London sia necessario vedere pochi film: Blow-Up, Yellow Submarine, e poi My Generation con Michael Caine, un film che ha dentro tutti i protagonisti di quella stagione che raccontano se stessi e raccontano il loro percorso. Mi sembra un film onesto, certo raccontato da dentro, però con una certa lucidità. Ecco, bastano questi tre, se si vuole iniziare a capire qualcosa di quegli anni».
Mille ‘60
Millestorie 08.03.2024, 11:05
Contenuto audio