“La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare, ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o che avete superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria”.
Così inizia il Prefazio – termine dotto e un po’ ironico a indicare il breve testo posto dall’autore a mo’ di introduzione – di quello che nel tempo sarebbe diventato il trattato probabilmente più famoso sull’arte culianaria, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi.
Il volume, pubblicato nel 1891, dopo qualche incertezza iniziale ebbe un successo travolgente, raggiungendo in pochi anni la considerevole tiratura di cinquantaduemila esemplari, frutto di ben quattordici edizioni.
E sì che l’Arutsi, nato a Forlinpopoli il 4 agosto del 1820, dopo gli studi universitari pareva avviato alla carriera letteraria, ma probabilmente gli insuccessi dei suoi primi due tentativi gli consigliarono di cambiare rotta, di modo che dalla sua casa di Firenze, dove ormai aveva trasferito la sua residenza e dove viveva da scapolo in compagnia dei suoi gatti e di due fedeli domestici-cuochi, iniziò a dedicarsi, è il caso di dire anima e corpo, alla passione della sua vita: la cucina.
Il suo capolavoro era destinato, come lui stesso scrive, alle massaie della colta e agiata boghesia, a cui dispensava, oltre alle ricette, anche preziosi consigli di economia, igiene e morigeratezza, spaziando fra specialità delle numerose regioni italiane. L’abilità narrativa, l’arguta sapidità del suo dire, la familiarità dell’esposizione, ne decretarono l’ampio consenso su vasta scala e ne fecero un importante strumento di identificazione, tant’è che c’è chi, come Piero Camporesi che per le edizioni Einaudi ne ha curato un’eccellente riedizione, si è spinto ad affermare che “La Scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi”.
Fra le circa 800 ricette presentate – con in Appendice perfino una serie di consigli per contesti e occasioni particolari – non poteva mancare quella dedicata al dolce natalizio per eccellenza, e questo con buona pace degli affezionati sostenitori del Pandoro: il panettone.
Ma a sorpresa l’Artusi non inserì la ricetta del panettone cosiddetto alla milanese, preferendole in tutte le edizioni quella della sua cuoca Marietta Sabatini, resistendo perfino a diverse sollecitazioni in tal senso.
Ecco, trascritta pari pari, la ricetta che nel libro porta il numero 604:
Panettone Marietta
La Marietta è una brava cuoca e tanto buona ed onesta da meritare che io intitoli questo dolce col nome suo, avendolo imparato da lei:
300 g: Farina finissima
100 g: Burro
80 g: Zucchero
80 g: Uva sultanina
3 uova: 1 intero e 2 rossi.
1 presa: Sale
10 g. Cremor di tartaro
1 cucchiaino: Bicarbonato di soda
20 g: Candito a pezzettini
1 limone: La scorza
2 dl: Latte
Rammorbidite il burro a bagno-maria e lavoratelo con le uova.
Aggiungete la farina e il latte a poco per volta, poi il resto meno l’uva e le polveri che serberete per ultimo.
Prima di versar queste, lavorate il composto per mezz’ora almeno e riducetelo col latte a giusta consistenza, cioè, né troppo liquido, né troppo sodo.
Versatelo in uno stampo liscio più alto che largo e di doppia tenuta onde nel gonfiare non trabocchi e possa prendere la forma di un pane rotondo.
Ungetene le pareti col burro, spolverizzatelo con zucchero a velo misto a farina e cuocetelo in forno. Se vi vien bene vedrete che cresce molto formando in cima un rigonfio screpolato. È un dolce che merita di essere raccomandato perché migliore assai del panettone di Milano che si trova in commercio, e richiede poco impazzamento.”
Per la storia del panettone alla milanese, tra miti e luoghi comuni, potete dare un occhio al nostro extra:
https://www.rsi.ch/s/1781439