Ormai è risaputo. Già in passato il pranzo di Natale era l’occasione per godere di cibi e pietanze che durante l’anno potevano al massimo essere immaginati. Ma per Natale era d’obbligo fá gió i crésp dal stómegh, spianare le grinze dello stomaco, come sentenziavano in quel di Brè, sopra Lugano.
La regola era quella, ma non mancavano purtroppo situazioni ben diverse, dove la precarietà e la miseria la facevano da padrone anche in quella circostanza. In valle di Blenio c’è chi ricorda ancora di famiglie che avevano dovuto accontentarsi per quel giorno solo di pane e caffè o della onnipresente polenta con un po’ di formaggella di capra; nel Malcantone c’è stato chi ha dovuto arrangiarsi con un poco di minestra con rape e una spruzzata di farina di segale; nel Mendrisiotto le famiglie contadine più povere si associavano, addirittura in una quindicina, per comperare una vacca vecchia e male in arnese e poter così disporre di un po’ di carne da offrire sul desco festivo.
Ma a fare da contraltare a questi racconti di stenti e di privazioni, c’è una sapida descrizione della tavola dei ceti più benestanti, imbandita di ogni ben di Dio. È il resoconto di un pasto natalizio nella Lugano di inizio Novecento, apparso nella rivista Il Cantonetto nel dicembre del 1962: «Si iniziava con la gran lessata: una costa di manzo, ... un po' di testina, qualche costina di punta di vitello, un po' di milza e poi, naturalmente cotti a parte, un bello zampone fumante, o se la famiglia era poco numerosa, un “cappello di prete” della stessa pasta dello zampone, cotechini, qualche luganiga, della mazza casalinga del balio o di qualche amico campagnolo, un po' di tempia o di ganascia di maiale. Quale accompagnamento obbligatorio per la lessata, si portava in tavola il barattolo della mostarda, dolce e forte vera Cremona, dono natalizio del salumiere di fiducia alla clientela affezionata; o qualche volta comparivano anche i crauti. Seguiva un buon brodo, quello della lessata corretto con un po' di pepe o di noce moscata, al quale gli uomini aggiungevano un paio di cucchiaiate di vino ... Poi veniva il piatto forte, il cappone, allevato in casa nella “capunèra” ... Dopo il cappone, il dolce. Il panettone alla milanese alto, fortemente lievitato, era poco diffuso. Si mangiava invece il miccone nostrano, un panettone di pasta più dura, ma ricca, oltre che di sultanina, anche di noci, di mandorle e di pignoli, un dolce nostrano, molto saporito. Ma c’era di più, la gran sorpresa attesa da grandi e piccini, il caollatte, una crema semplice, squisita, per preparar la quale non si facevano economie ... Il caollatte era difficile da farsi, e qualche buona mamma, per non correre troppi rischi, preparava invece uno zabaglione caldo con uova, marsala e vino bianco. Ma non è finita qui. Un gran piatto di frutta: pertugalli (come allora si chiamavano le arance), mandarini, mele renette, uva passa, e ogni sorta di frutta secca: noci, nocciuole, fichi secchi e perfino datteri; ... per finire c'era ancora un pezzetto di grana, parmigiano stravecchio e gustosissimo, che si prendeva per far buona bocca. Per i vini non si andava troppo per il sottile, i buongustai del tempo dicevano che cambiar vino non è sempre raccomandabile, per cui ci si atteneva al Piemonte, che era poi un Barbera ... Un buon caffè, un cicchetto di grappa nostrana per gli uomini e l'uva o le ciliegie sotto spirito per le donne ed i ragazzi, completavano la godenda».
Il minimo che si possa dire è che si tratta di un pranzo coi fiocchi! Una florida condizione economica permetteva godende di questo tipo.
Nei nostri dialetti si dice che chi pò mazza un bò, “chi ne ha la possibilità, uccide un bue”, a indicare una grande disponibilità di mezzi. In questo caso, par di poter costatare, la massima trova piena e assoluta conferma.