Aveva indetto le elezioni anticipate per garantirsi un’investitura nazionale. Non solo una legittimazione elettorale, ma soprattutto una maggioranza parlamentare "forte e stabile" che le assicurasse una sorta di immunità durante i negoziati. Ma le elezioni sono andate come è noto, e oggi Theresa May si siede al tavolo delle trattative con Bruxelles come una premier commissariata. Ufficialmente la strategia britannica per l’uscita dall’Unione non è cambiata. Londra è pronta a sacrificare l’accesso al mercato unico e all’unione doganale pur di ripristinare il controllo dell’immigrazione e sfilarsi dalla Corte Europea di Giustizia. L’ala euroscettica dell’Esecutivo, silenziosa negli ultimi giorni, per quanto possibile ha preteso garanzie dalla premier: il voto referendario non può essere disatteso o, peggio, tradito.
Premier sfiduciata
E la prima ministra non ha potuto che traccheggiare, dispensando rassicurazioni che in verità non è più in grado di offrire. Perché il voto dell’8 giugno, privandola di una maggioranza in Parlamento, l’ha di fatto sfiduciata. Resta lei l’inquilina del civico 10 di Downing Street per mancanza di alternative e necessità contingenti, ma di fatto la sua autonomia decisionale è una geometria variabile senza solide fondamenta. I conservatori, già di per sé sufficientemente divisi al loro interno da non rappresentare un fronte unito e coeso, si sono fermati a 8 seggi dalla soglia di galleggiamento (326 deputati) che regala la governabilità. L’accordo con la delegazione DUP, i democratici unionisti nord-irlandesi, è in fase di definizione e presto verrà ratificato. Portando in dono al Governo 10 voti vitali.
Rischi per la pace
Ma - al di là del prezzo pagato dall’Esecutivo per questo accordo - sono ben note le posizioni del DUP sulla Brexit. E’ stato l’unico partito a Belfast a sostenerla, finendo per risultare minoranza nella regione. Ma, come tutti gli altri partiti locali, pone una condizione irrinunciabile per la tutela del processo di pace: l’assenza di una frontiera materiale tra nord e sud dell’Isola di Smeraldo. Servirà però una soluzione fantasiosa: da una parte la minaccia del riaccendersi di nuove tensioni socio-religiose, dall’altra la necessità di segnare l’unico confine di terra tra il Regno e l’Unione.
Eccezione scozzese
Non bastassero le incertezze nord-irlandesi, anche la Scozia solleva rilevanti elementi di criticità. Perché i 12 deputati Tory eletti oltre il Vallo d’Adriano hanno sì eroso l’egemonia dei nazionalisti scozzesi, archiviando di fatto la richiesta per un secondo referendum indipendentista, ma ora alzano la voce. La loro leader, Ruth Davidson, pretende che i negoziati siano aperti e che tengano in considerazione le necessità di un’eccezione: la sola Edimburgo dentro il mercato comune. Non sarà possibile. Ma la Brexit non potrà più essere, come forse nelle ambizioni di Theresa May, un’incondizionata prova di forza con Bruxelles senza sconti né mediazioni, bensì un delicato processo di confronto, incerto e difficoltoso, durante il quale la premier dovrà fare i conti sopratutto con quello che le sarà imposto da Westminster.
di Lorenzo Amuso