L’annuncio è di questi giorni. La missione di pace fra Ucraina e Russia annunciata da Papa Francesco sul volo di ritorno verso Roma dopo un viaggio di tre giorni in Ungheria è stata affidata al cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana. Toccherà a lui provare a disinnescare la crisi allentando le tensioni tra Kiev e Mosca.
L’esperienza in Mozambico
Non è difficile immaginare il motivo per il quale Bergoglio ha scelto come suo mediatore il porporato romano. All’interno delle gerarchie ecclesiastiche non è facile trovare personalità esperte come lui in tema di diplomazia e relazioni internazionali su territori ad elevata criticità. Su più fronti Zuppi ha dato prova della sua capacità di mediazione. A cominciare da quanto fatto in Mozambico: era il 4 ottobre del 1992 quando, grazie al paziente lavoro di Zuppi e della Comunità di Sant’Egidio, l’allora presidente del Paese, Joaquim Chissano, e il leader della guerriglia, Afonso Dhlakama, firmarono un accordo generale di pace dopo 17 anni di guerra civile con centinaia di migliaia di morti e quasi 4 milioni di sfollati e profughi. L’“Onu di Trastevere”, come viene giornalisticamente definita la Comunità, si avvalse del supporto del giovane “don Matteo” per spingere l’ex colonia portoghese verso le prime elezioni libere della sua storia e che ebbero poi luogo due anni più tardi.
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La pacificazione di Bologna
Ma non è tutto qui. Zuppi ha dimostrato grande propensione alla mediazione e alla pacificazione anche da arcivescovo di Bologna. Vi è arrivato nel 2015, dopo che riproponendo uno schema caro a Giovanni Paolo II, in una delle diocesi più rosse d’Italia e con una presenza di cattolici posizionata su istanze progressiste Benedetto XVI mandò come vescovo Carlo Caffarra, vicino a Comunione e Liberazione e di posizioni conservatrici. Zuppi ha messo unità e comunione al centro del suo programma. Ha saputo unire le diverse sensibilità, dai più vicini al pontificato in corso fino alle anime più lontane. Ha saputo ascoltare e incontrare tutti, senza considerare validi i paradigmi con i quali in molti ancora oggi guardano alla Chiesa: destra e sinistra, tradizionalisti e liberal. E ha condotto la diocesi con fare sinodale, e cioè comunitariamente, nell’ascolto di tutti, anzitutto dei laici e di chi è ai margini. La sinodalità, del resto, era stata un’esplicita richiesta messa nero su bianco da Francesco nel convegno ecclesiale di Firenze, in parte tuttavia disattesa. “La missione è quella di sempre – ha confermato Zuppi una volta eletto a capo della Cei –: la Chiesa che parla a tutti e parla con tutti. La Chiesa che sta per strada e che cammina, la Chiesa che parla un’unica lingua, quella dell’amore, nella babele di questo mondo”.
Il rapporto con la politica
Zuppi non ha chiuso le porte a nessuno. Anche nei confronti dei leader politici ha sempre provato a disinnescare categorie per lui ormai “superate”. Ha spiegato in una intervista Repubblica del 2022: “Figuratevi che io quando vado in visita nei paesi scopro alla fine che il sindaco è di una parte o dell’altra. Anche a me hanno chiesto se sono progressista. Ho risposto: spero di essere cristiano. Se il problema è difendere la a persona siamo tutti insieme. Tutti dobbiamo difendere la nostra storia e la nostra tradizione. Mentre certe toponomastiche sono obsolete. Sono categorie vecchie ormai di cinquanta, sessant’anni, senza più riferimenti ideologici. Così anche bella Chiesa. La sfida è superare queste categorie e lavorare insieme. Fra le due parti ci sono spesso intolleranze ingiustificate mentre il punto è trovare risposte per tutti sennò tutto sfocia in un ambiente elettrico”.
Per tutti questi motivi il Papa l’ha scelto. Lanciandolo in una missione ai limiti del possibile, verso la quale il vescovo di Roma tiene comunque acceso il lume della speranza. Francesco le vuole provare tutte. Zuppi, forte anche dell’esperienza maturata in Sant’Egidio, è la carta più credibile.
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