A Nikopol, l’acqua è tutto ciò che separa la città dall’artiglieria russa. Sull’altra sponda del fiume, l’esercito di Mosca occupa la centrale nucleare di Zaporizhzhia e i territori circostanti. Per entrare occorre un permesso speciale. La città, infatti è bersagliata quotidianamente da droni kamikaze e colpi di artiglieria. Un rischio costante con cui la popolazione ha imparato ormai a convivere.
“Chi farebbe questo lavoro se tutti lasciassero la città? Sono una specialista e c’è bisogno di me qui”. Olga, elettricista e madre di due figli, è responsabile dell’impianto elettrico del più grande stabilimento siderurgico della città. Qui si lavora l’acciaio per produrre condutture che vengono esportate in mezzo mondo, Svizzera compresa. Negli immensi capannoni della Centravis si fanno i turni anche di notte per mandare avanti una delle attività che contribuiscono a far battere il cuore della debole economia ucraina, affossata da due anni e mezzo di guerra.
Il fronte e la centrale nucleare di Zaporizhzhia in mano ai russi
Ma l’industria pesante deve fare i conti anche con la mobilitazione. “Soltanto ieri, tre dei nostri impiegati sono stati arruolati nell’esercito”, ci spiega Vitaliia Bila, la responsabile della comunicazione. Dall’inizio della guerra, questa azienda, come altre, ha iniziato ad assumere più donne. Ma non tutte le professioni possono essere sostituite. Per questo, il Governo permette alle imprese ritenute strategiche di trattenere il 50% della manodopera maschile.
Lavoratrici di Nikopol
Le sirene antiaeree suonano più volte al giorno: il volume è alto per sovrastare il rumore dei macchinari, tra i quali sono allestiti dei bunker con i sacchi di sabbia. Soltanto due giorni prima, parte della struttura è stata colpita da un bombardamento. “Fa paura, sì, ma ormai ci siamo ci siamo abituati e seguiamo le misure di sicurezza. Quando sta arrivando un bombardamento cerchiamo di riconoscerne il suono”, ci spiega Olena, che si occupa del taglio dei tubi. “Resisteremo, e a un certo punto questa guerra finalmente finirà”, ci dice.
Ci spostiamo verso Est ed entriamo nel Donbass. A Pokrovsk c’è la più grande miniera di carbone dell’Ucraina, l’unica dove si produce il coke necessario per le industrie. Camminando nella città, si sentono dei boati in lontananza: da qui il fronte dista appena una trentina di chilometri.
Prima dell’invasione russa su larga scala, in questo impianto minerario lavoravano circa 8’000 persone. Ma la guerra ha cambiato tutto. “Dall’inizio dell’invasione, 1’200 lavoratori sono stati mobilitati. Alcuni di loro sono tornati a lavoro. Mentre purtroppo 325 tra dipendenti e loro familiari sono stati uccisi o feriti a causa della guerra”, ci spiega il direttore della miniera del gruppo Metinvest, Andriy Akulych.
Nella miniera. Incontriamo Svitlana e Olena all’inizio del loro turno di lavoro. Dopo aver indossato gli indumenti protettivi, la lampada frontale e il respiratore d’emergenza, le due donne di 28 e 31 anni sono pronte a prendere l’ascensore che conduce a 500 metri sotto il livello della superficie.
Nella miniera di carbone di Pokrovsk
Immagini di Emilio Romeo
A queste profondità, la guerra – così vicina – per qualche momento sembra lontana. “Mi piace il mio lavoro, l’ho scelto. Qui mi distraggo da tutti i problemi”, ci dice Svitlana, che lavora come elettricista. Seguiamo anche Olena, che si occupa del controllo qualità del carbone che viene estratto. Ci spiega che per il suo lavoro si sposta anche per 7-8 chilometri nelle gallerie scavate sottoterra. “Non abbiamo altra scelta, dobbiamo lavorare, dobbiamo guadagnare per mantenere le nostre famiglie. Pokrovsk sopravvive solo grazie alla miniera”.
Il lavoro di estrazione vera e propria del carbone continua a essere svolto per legge solo dagli uomini. Un lavoro, da sempre, considerato tra i più duri e rischiosi. All’ingresso della miniera, un vecchio cartello raccomanda: “Abbiate cura di voi, qualcuno vi aspetta a casa”.