In Georgia prosegue il duello tra Governo e opposizione, a livello istituzionale e nelle piazze. Gli scontri e le proteste dei giorni scorsi, sia nelle capitale Tbilisi che nei maggiori centri del paese, hanno allargato la frattura che si è aperta ormai da tempo tra il fronte filorusso e quello filoccidentale. Dopo le elezioni di fine ottobre, contestate dall’opposizione e dai suoi sostenitori esterni, tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, il governo del premier Irakli Kobakhidze, che fa riferimento a Sogno georgiano, il partito del potere fondato dall’oligarca Bidzina Ivanishvili, ha respinto le accuse di manipolazione e inaugurato questa settimana il nuovo Parlamento, rimasto in parte vuoto a causa del boicottaggio di alcune formazioni.
Paese diviso
Lo scontro istituzionale si è così ulteriormente aggravato e la presidente Salome Zurabishvili, schierata da mesi alla guida del cartello d’opposizione, si è rifiutata di riconoscere dopo il risultato del voto anche la nuova assemblea legislativa. In Parlamento a Tbilisi la maggioranza è saldamente nelle mani di Sogno georgiano, con 89 seggi su 150. La missione internazionale dell’OSCE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo in Europa che ha monitorato le elezioni del 26 ottobre, ha sottolineato le diverse criticità, ma in sostanza ha ritenuto il voto valido. I fronti appaiono comunque inconciliabili, tra il Governo che non intende cedere alla pressioni interne e internazionali e l’opposizione che cerca il confronto mobilitando le piazze.
Ciò che hanno mostrato i mesi e gli anni passati è che la piccola repubblica del Caucaso è ancora divisa, sia a livello di “élite” e gruppi di potere sia dell’intera società. Lo schema è lo stesso che si può riscontrare in varie repubbliche ex sovietiche, che dopo oltre trent’anni di indipendenza non sono riuscite a trovare un equilibrio tra le varie anime e soprattutto tra i vari interessi, sia degli attori interni, che dei sostenitori esterni. In Georgia, teatro dei conflitti intestini all’inizio degli anni Novanta nelle repubbliche separatiste di Ossezia del sud, Abcasia e Agiaria, si è assistito alla prima rivoluzione colorata nel 2003, quella delle rose che ha portato al potere il filoccidentale Mikhail Saakashvili, poi alla guerra del 2008 con la Russia, con la perdita di Ossezia e Abcasia, e infine alla sostituzione del gruppo di Saakashvili, dal 2013, con quello di Ivanishvili.
Rischio rivoluzione
La divisione, fin troppo semplicistica, tra filorussi e filoccidentali delinea in ogni caso due campi che negli ultimi tre decenni si sono alternati nella gestione del Paese, rimasto in bilico tra Russia e Occidente, per diverse ragioni. La lunga battaglia interna, definita in realtà da interessi più locali che internazionali, è sempre stata declinata, a livello politico che mediatico, come questione geopolitica internazionale. Ecco dunque che oggi l’autoritarismo crescente di Sogno georgiano viene descritto dall’opposizione come parte di un disegno schizzato dal Cremlino per riconquistare l’influenza perduta e dall’altra parte si addita come risultato di un complotto occidentale ogni movimento che si oppone al Governo. Il quadro è destinato a rimanere questo, almeno fino a che ci saranno davvero interferenze evidenti dei player esterni.
Per decifrare la situazione bisogna insomma rifarsi a ciò che è successo nel recente passato, in Georgia o Ucraina, e che può ripetersi appunto a Tbilisi o altrove, ad esempio in Moldova. Lo scontro tra Governo e opposizione degenera in rivoluzione quando le spinte esterne lo portano all’estremo, seguendo un copione che si limita però a prevedere il cambio immediato di regime, senza valutarne le conseguenze, ossia la reazione dell’avversario. In Georgia sino ad ora, sia prima che dopo le elezioni, al di là della retorica a distanza, non si è vista la presenza occidentale sul terreno, tanto meno quello russa: se Washington e Bruxelles hanno criticato apertamente Ivanishvili e Kobakhidze, Mosca ha tenuto un profilo relativamente basso.
Il modello ucraino
In confronto: nel 2013, un paio di settimane dopo l’inizio delle manifestazioni contro il presidente filorusso Viktor Yanukovich, colpevole secondo l’opposizione filoccidentale di non aver firmato l’Accordo di associazione con Bruxelles, a Kiev erano volati i falchi guidati dall’allora vice segretaria di Stato statunitense Victoria Nuland e vari ministri degli esteri di Paesi dell’Unione Europea per dar forza alla protesta e accompagnare quello che poi sarebbe stato definito da Mosca un vero e proprio colpo di Stato. La regia statunitense, visibile in Georgia con l’arrivo di Saakashvili nel 2003, al momento non è però percepibile, con Washington impegnata prima su altri fronti e ora nel processo di transizione, mentre il sostegno europeo si è limitato appunto alla retorica a distanza.
È probabile quindi che, in assenza di un piano esterno che andrebbe ad aprire un altro fronte tra Russia e Occidente, la crisi possa gradualmente rientrare. L’elezione tra breve del nuovo presidente, successore di Zurabishvili, che avverrà non più in maniera diretta, ma all’interno un collegio ristretto di 300 elettori, contribuirà al ridimensionamento del conflitto tra le istituzioni. Se invece si assisterà al processo inverso, con il supporto sempre maggiore e diretto, in presenza per così dire, di USA e EU all’opposizione e alla piazza, allora il pericolo è che si possa replicare lo scenario ucraino, cominciato proprio alla fine di novembre di undici anni fa.
RG delle 9 del 29.11.2024 - Proteste in Georgia
RSI Info 29.11.2024, 09:07
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