In Iran sabato si è aperta una nuova giornata di proteste. Migliaia di persone, soprattutto giovani e studenti, hanno manifestato in numerose città e tra queste Ardabil, dove mercoledì una studentessa è morta in ospedale dopo essere stata picchiata dalle forze di sicurezza. Per capire la portata di quanto sta accadendo, la RSI ha intervistato Farian Sabahi, docente di storia e politica iraniana alla John Cabot University di Roma:
"Le proteste in Iran sono scoppiate per la morte di Mahsa Ahmini, la ventuduenne kurda iraniana, ma poi si sono estese a tutto i paese e la gente in piazza oggi rivendica maggiori diritti. Sono persone che reclamano anche una migliore gestione della cosa pubblica, perché in Iran c’è molta corruzione, c’è disoccupazione, e l'inflazione è a due cifre. Ci sono poi delle rivendicazioni dal punto di vista delle minoranze etniche religiose, penso ai beluci nei sud est del paese ma anche ai curdi che abitano nella parte occidentale dell’Iran. Si aggiungono poi delle rivendicazioni dal punto di vista climatico, in particolare nella città di Urmia che è il capoluogo della provincia iraniana dell’Azerbaijan occidentale dove da un po’ di tempo non c’è più acqua. Quindi le rivendicazioni sono molteplici".
C’è la possibilità che tutto questo sfoci in qualcosa di più, oppure la repressione sarà così forte che tutto finirà nel nulla?
"La storia ci insegna che la repressione nella Repubblica islamica è particolarmente dura, la macchina repressiva è una macchina ben oliata, quindi questo sta intimidendo in particolare i ceti medi. Per vedere dei risultati concreti bisogna vedere se queste proteste saranno in grado di andare avanti per mesi. Non dimentichiamo che la rivoluzione del 1979 aveva impiegato 13 mesi per cacciare lo scià".
Esiste una classe politica dietro queste proteste? C’è qualcuno che sarebbe pronto ad entrare in gioco nel caso in cui divenissero qualcosa di più?
"Queste proteste, nate in Iran, sono caratterizzate dal fatto che sono prive di un coordinamento e sono acefale: non c’è un leader o una classe dirigente in grado di prendere le redini del paese nel caso in cui ci fosse necessità. I leader dei movimenti d’opposizione, i riformatori di un tempo, sono tutti in esilio negli Stati Uniti o nel Regno Unito, o anche in Italia, oppure sono stati messi agli arresti domiciliari in Iran e non riescono più a parlare. Quindi è una situazione molto difficile. Rimangono allora due opportunità, che però non si possono giocare. Una è quella dei Pahlavi in esilio, cioè l'erede al trono del Pavone, che però in Iran non ha alcuna legittimità, perché è fuori dal paese da troppo tempo, ma soprattutto è percepito come qualcuno di estremamente benestante, che ha goduto del beneficio della ricchezza di famiglia. Dall'alta parte ci sono i mujahidin del popolo, che però sono totalmente screditati dalla Repubblica islamica, perché nel settembre del 1980, quando Saddam Hussein invase con le truppe irachene l’Iran, i mujahidin del popolo presero le parti degli iracheni, e iniziarono atti terroristici in Iran. Sono quindi screditati nel paese".