Moria, l'inferno ha preso fuoco

Non ha sorpreso tutti, anzi, per molti era solo questione di tempo. L’incendio appiccato al centro profughi di Moria, sull’isola di Lebos, ha confermato quanto sia critica e instabile la situazione in Grecia. Un centro progettato per circa 3'000 ospiti, che però deve fare i conti con numeri ben diversi: c’è chi dice 13'000, chi addirittura si spinge fino a 20'000. In ogni caso, tutti sono d’accordo su un fatto: sono troppi.

Soprannominato "l’inferno vivente", il più grande campo del Paese è famoso purtroppo per le condizioni disumane in cui devono vivere degli esseri umani. Secondo lo svizzero Jean Ziegler del Consiglio dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite "è la riproduzione di un campo di concentramento".

Ribellioni e scontri possono scoppiare da un momento all’altro. Se in passato accadeva perché a mancare era il cibo, oggi succede perché il coronavirus non ha risparmiato nemmeno i migranti, rendendo difficoltosa la gestione dei positivi. E come se non bastasse, i problemi ci sono anche all’esterno delle recinzioni, con i cittadini che si lamentano per l’aumento degli atti di violenza.

Il centro è travolto da un numero sempre maggiore di arrivi. Il 70% di questi proviene dall’Afghanistan. A viverci sono uomini, donne e bambini provenienti da oltre 70 nazioni diverse. In migliaia restano lì, bloccati da una burocrazia lenta che fatica a esaminare le richieste di asilo.

Ora, in seguito all’accaduto, si sono rinnovati gli appelli per far sgomberare Moria e distribuire i rifugiati in Europa, Svizzera compresa. "Non ci sono motivi razionali per cui la Svizzera non dovrebbe accogliere i rifugiati. Se non ora, quando?", fa sapere Fabian Molina, deputato socialista che è stato due volte a Lesbo.