La morte di Evgeny Prigozhin, o presunta tale, visto che sino ad ora non ci sono né prove inequivocabili né ufficialità, rischia di rimanere avvolta nel mistero. Come la “marcia della giustizia” con la quale esattamente due mesi fa il capo della compagnia Wagner ha sfidato i vertici delle forze armate russe e lo stesso Vladimir Putin: una via di mezzo tra un ammutinamento e un colpo di stato, finita improvvisamente sulla via di Mosca grazie all’intervento del presidente bielorusso Alexander Lukashenko, questa almeno la versione ufficiale. In realtà la vicenda è restata molto opaca, sia nel suo sviluppo che nel suo esito, con il ruolo successivo di Prigozhin nelle ultime otto settimane ancora da decifrare, tanto che è stata letta dai cremlinologi più attenti in maniera estremamente cauta, a causa proprio della mancanza di dettagli e di fonti dirette che si sono espresse in merito. La stessa cosa sta accadendo con gli eventi attuali, che a prima vista possono apparire chiari, ma che possono non esserlo.
Ammesso e non concesso in primo luogo che Prigozhin sia rimasto vittima del disastro aereo di Tver, e non ci si trovi di fronte quindi a un gigantesco depistaggio, una maskirovka russa in grande stile, come è stata interpretata da alcuni osservatori anche la “marcia della giustizia”, la sua morte chiude definitivamente la storia del cuoco di Putin al Cremlino e il primo pensiero è che a troncare brutalmente il rapporto sia stato proprio il presidente russo, consumando una vendetta tiepida dopo la rivolta armata di giugno. Questa è la narrazione più evidente e semplice, ma non è detto che sia quella autentica in ogni particolare.
Gli attori in campo non sono solo due, ma i corridoi del potere dentro e fuori il Cremlino sono molti: Putin è sempre stato più un “arbiter” che un “dominus”, più il mediatore fra i vari gruppi concorrenti che il signore assoluto con in mano il destino dei singoli. Ha sempre delegato molto, per mantenere certi equilibri, anche se la guerra ha ridotto il cerchio magico intorno al capo dello stato e inasprito la lotta interna, anche tra i siloviki, gli uomini dell’apparato militare e dell’intelligence, interna ed esterna, Fsb e Gru.
Certamente la Wagner decapitata è un problema in meno per il ministro della Difesa Sergey Shoigu e per il generale Valery Gerasimov, da mesi nemici giurati di Prigozhin, ma è altrettanto vero che la compagnia militare in questi anni è stata uno strumento di cui il Cremlino si è servito per agire sottotraccia in vari teatri all’estero, dalla Siria all’Africa e ovviamente all’Ucraina. Due mesi possono essere stati sufficienti per prepararsi al passaggio di consegne a un vertice più accondiscendente e più gestibile, considerando il fatto che i finanziamenti arrivano dalle casse dello Stato e dopo la “marcia della giustizia” non ci sono stati più margini per raggiungere compromessi tra il leader di Wagner e il Cremlino.
D’altro canto, mantenendo in questa lettura la versione semplificata, come il fallimento della rivolta di giugno è stato il segnale che Prigozhin era tutto sommato solo e l’establishment intero si è schierato in sostanza con Putin, così la spettacolare fine della leadership wagnerita è stato il messaggio che il Cremlino, in senso stretto e in senso lato, non tollera deviazioni dalla linea dettata e chi prova a cambiare rotta è destinato a fare una brutta fine. La cornice politica interna è quella che si sta allestendo in vista delle elezioni del 2024, per le quali ci sarà solamente un unico candidato.
RG 7.00 del 24.08.2023 - La corrispondenza da Mosca di Giuseppe D'Amato
RSI Info 24.08.2023, 07:24
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