Disseminiamo un’enorme quantità impronte veramente “digitali” ovunque. Siamo noi i primi a sparpagliare in rete dati, dettagli, fotografie, abitudini della nostra vita. Queste tracce sono registrate, analizzate e sfruttate. Senza che nessuno ci chieda il permesso. Senza che ne siamo consapevoli.
Una diagnosi impietosa quella di Michal Kosinski, 36 anni, uno dei massimi esperti mondiali di big data e pioniere degli studi comportamentali delle nostre interazioni con la rete.
Fu proprio dopo la sua laurea in psicologia a Oxford che diede avvio insieme ad altri due colleghi a una ricerca per analizzare il comportamento di migliaia di utenti di Facebook. Attraverso un’analisi psicologica dei “mi piace” da parte degli utenti, dimostrarono la prevedibilità dei loro comportamenti in modo molto accurato. “Non ho nulla a che fare con Cambridge Analytica” ci dice subito quando lo incontriamo nel suo studio nel campus dell’Università di Stanford, in California.
Cambridge Analytica sfruttò l’idea per ottenere illegalmente 87 milioni di profili di utenti di Facebook a loro insaputa per condizionare le elezioni presidenziali del 2016 negli USA, poi vinte da Donald Trump. A insaputa degli utenti, ma la società di Mark Zuckerberg sapeva, secondo l’inchiesta avviata quasi un anno e mezzo fa dalle autorità giudiziarie della California. Ieri il procuratore generale ha reso nota l’esistenza dell’indagine, a cui Facebook non sta collaborando.
Ma i dati – non solo quelli rubati da Cambridge Analytica con l’obiettivo di inviare messaggi politici mirati – sono ormai in circolazione. E la battaglia per la privacy, piaccia o no, in parte è compromessa. Indietro non si torna: “Non possiamo pensare di tornare all’età della pietra”, in epoca-pre-digitale.
In rete c’è tanto, troppo, tutto su di noi.
“Dobbiamo capire che il progresso tecnologico ci garantisce molta meno privacy rispetto al passato”, dice in questa intervista alla RSI Michal Kosinski, oggi professore associato di abitudini comportamentali a Stanford. A suo parere, occorre “prendere atto che le numerose impronte digitali e i dati che lasciamo in rete vengono usati per identificare i nostri più profondi tratti personali e prevedere i nostri comportamenti futuri. In base a questo, vengono modificati di conseguenza i messaggi a noi destinati”.
Però c’è anche una svolta positiva, secondo Kosinski. L’accesso alla rete si è democratizzato. Manipolazioni, propaganda, bugie, incitamento all’odio su base razziale o religiosa, fake news esistevano anche prima. L’abuso – afferma – non dipende dallo strumento ma dall’uso politico. Oggi esiste un vantaggio: la comunicazione digitale è più economica rispetto ai canali tradizionali. Questo la rende possibile non solo a partiti legati all’establishment, alle grandi corporation o a chi dispone di massicce quantità di fondi. "Ciascuno di noi – conclude il professore - può davvero comunicare online e far arrivare il proprio messaggio”.