I dazi dovrebbero avere quale scopo principale di riportare negli Stati Uniti una parte della produzione industriale. Quindi un mercato più regionale. come per esempio il rilancio della manifattura, temi che possono essere associate alle battaglie “no global”, quando si proponeva di creare un’alternativa dal basso al neoliberismo.
Vera Pellandini di SEIDISERA della RSI ha sentito la professoressa di economia politica dell’Università del Piemonte orientale, Alessia Amighini, proprio per capire se ci sia una convergenza tra l’attuale politica trumpiana e la vecchia critica al mercato globale, portata avanti dalla sinistra diciamo “alternativa”.
“Sì, diciamo che a grandi linee si può intravedere un obiettivo comune tra le rimostranze dei cosiddetti “no global” e le intenzioni di Trump. Questo perché l’obiettivo interno di Trump è quello di avere il consenso per una politica commerciale ed una politica economica complessivamente molto mercantiliste, cioè molto nazionaliste. E questo fa leva sulle masse di disoccupati che si sono accumulati negli ultimi quarant’anni nei settori che hanno subito la concorrenza delle importazioni. Quindi, nel caso degli Stati Uniti, i disoccupati della manifattura. Probabilmente dunque il corso, feroce, che l’America stessa ha impresso alla cosiddetta globalizzazione... le si è ritorta contro”.
La nuova politica dell’amministrazione americana potrebbe anche correggere delle degenerazioni del sistema?
“Indubbiamente la riduzione drammatica dei costi ha reso il trasporto qualcosa di trascurato. Invece l’impatto ambientale di tutto questo è enorme. E ridurre la portata geografica delle filiere a fornitori più vicini (e che siano meno soggetti, diciamo così, a interruzioni di forniture per motivi di vario genere, politici, geopolitici, logistici o quant’altro e che riducano l’impatto ambientale del commercio) certamente è desiderabile. Come sempre il giusto sta nel mezzo”.
Quindi la manovra di Trump ha almeno il vantaggio di mettere sul tavolo il problema?
“Sì, il tema della Cina nel sistema mondiale degli scambi, è stato affrontato quando entrò nel 2001 dell’OMC. Ma poi non è mai più stato affrontato. E si è creduto, in modo assolutamente ingenuo, che la Cina facesse avrebbe fatto delle riforme, così come aveva promesso, cosa che però non è mai avvenuta. Anzi, la Cina ha acquisito una quota di mercato globale monstre, che su moltissimi, su centinaia e centinaia di settori, supera il 50%. Questo chiaramente è una minaccia oggettiva alla sicurezza delle filiere. Non è solo Trump che lo dice per gli Stati Uniti. Per l’Europa, sebbene non se ne sia accorta totalmente, è sicuramente un problema evidente. Non è possibile avere una fornitura così massiccia da un paese che dall’oggi al domani può dire... “a voi non esportiamo più””.
Però i modi, gli strumenti, secondo molti analisti, non sono quelli giusti. Lei come li valuta?
“I metodi, i mezzi, il ritmo e lo stile della reazione di Trump non sono affatto condivisibili. Perché non risolvono il problema. E poi creano ulteriori frizioni tra gli alleati economici e militari. E quindi creano più problemi di quanti non riescano a risolverne. Ragion per cui la scelta di Trump è pessima. Questo anche perché in alcuni aspetti facilita la Cina nel rinsaldare dei tavoli di discussione e di negoziato, per esempio con Giappone e Corea del Sud, che non avevano nessuna convenienza e intenzione di proseguire. Ed invece settimana scorsa abbiamo visto che si sono un po’ rinfrescati. Ecco, questo fa capire quanto la cosiddetta strategia di Trump... non sia affatto una strategia, ma sia un insieme di cose molto raffazzonate”.