Con il conflitto in Nagorno-Karabakh si torna a parlare di “pulizia etnica”, un concetto relativamente recente emerso per la prima volta nell’ambito del conflitto nell’ex-Jugoslavia degli anni ’90.
Cos’è la “pulizia etnica”?
Nel 1992, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ne parla per la prima volta nella sua risoluzione 771. Due anni dopo, una commissione di esperti delle Nazioni Unite ha definito la pulizia etnica “una politica deliberata progettata da un gruppo etnico o religioso per eliminare, tramite l’uso della violenza e del terrore, le popolazioni civili appartenenti a una diversa comunità etnica o religiosa da determinate aree geografiche”.
Assassini, detenzioni arbitrarie, confinamento in ghetti, stupri, sfollamento e deportazione di popolazioni civili, sono alcuni dei metodi utilizzati, secondo le Nazioni Unite.
Portata all’estremo, la “pulizia etnica” può condurre alla distruzione totale o parziale di un gruppo etnico e/o religioso, in altre parole al genocidio, come è accaduto nel Ruanda nel 1994.
Cosa dice il diritto internazionale?
La pulizia etnica non è un crimine in quanto tale ai sensi dello Statuto di Roma, il trattato istitutivo della Corte penale internazionale (CPI), che ha giurisdizione sui crimini di guerra, contro l’umanità, il genocidio e i crimini di aggressione commessi sul territorio dai suoi Stati membri o dai loro cittadini. Tuttavia, a seconda della portata e della gravità della “pulizia etnica”, gli esperti delle Nazioni Unite hanno ritenuto che queste pratiche possano “costituire crimini contro l’umanità” ed “essere assimilate a crimini di guerra ben definiti”.
I precedenti
Nell’ex Jugoslavia il massacro di quasi 8’000 persone nel luglio del 1995 nell’enclave di Srebrenica, è un chiaro esempio della politica di “pulizia etnica” attuata dalle forze serbo-bosniache per cacciare i musulmani da aree chiave della Bosnia. Non è l’unico caso.
Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPI), creato dalle Nazioni Unite nel 1993, ha incriminato più di 160 persone per reati commessi tra il 1991 e il 2001 contro membri di diverse comunità etniche in Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Kosovo e Macedonia. Novanta sono state condannate.
Il Darfur
Il Darfur, una vasta regione nell’ovest del Sudan, è stato devastato da una guerra civile iniziata nel 2003 tra il regime a maggioranza araba di Omar al-Bashir e gli insorti delle minoranze etniche, che denunciano delle discriminazioni. Nel 2007, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso allarme per la “pulizia etnica” messa in atto dal regime di Khartoum.
La Birmania
In Birmania, nel 2017, le atrocità commesse dall’esercito hanno costretto 750’000 persone della minoranza musulmana Rohingya a fuggire dal Paese, prevalentemente buddista, per rifugiarsi in Bangladesh. Per il Segretario di Stato americano Antony Blinken, “le intenzioni dell’esercito sono andate oltre la pulizia etnica, per arrivare a una vera e propria distruzione” di questa minoranza.
Altri casi di “pulizia etnica” sono stati segnalati in Cecenia negli anni Novanta.
La situazione in Nagorno - Karabakh
L’Armenia, dove si stanno riversando decine di migliaia di rifugiati dal Nagorno-Karabakh, accusa l’Azerbaigian di “pulizia etnica” nell’enclave a maggioranza armena riconquistata la settimana scorsa dalle forze azere. Baku respinge questa accusa, affermando che “i residenti armeni stanno lasciando il Karabakh di loro spontanea volontà” e invitandoli a “non lasciare le loro case”.
Gli esperti e i rifugiati intervistati dall’AFP citano diverse ragioni per cui sono fuggiti: le ingiunzioni dei separatisti, la paura di rappresaglie che è rimasta forte dalla grande guerra degli anni ‘90 e l’esodo di centinaia di migliaia di azeri e armeni. Infine anche il ricordo straziante delle migliaia di morti nella seconda guerra nel 2020.
Migliaia di persone in fuga dal Nagorno-Karabakh
Telegiornale 28.09.2023, 21:15