La Bolivia rappresenta il terzo produttore mondiale di cocaina dopo Colombia e Perù. Nel 2016, secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite (UNODC) per il controllo della droga, la superficie destinata alla coltivazione della coca nel paese andino è aumentata del 14% rispetto all’anno precedente, attestandosi a 23.100 ettari.
Attualmente la cocaina destinata al mercato europeo, dove si registrano oltre 3 milioni di consumatori, proviene in buona parte da Perù e Bolivia. Dai paesi andini la polvere bianca viaggia verso le coste del Brasile, per poi raggiungere via mare i porti dell’Africa Occidentale ed infine la penisola iberica. Il recente accordo di pace tra le FARC ed il governo colombiano, che prevede la sostituzione di 50.000 ettari di superficie coltivati a coca con prodotti alternativi, accresce ulteriormente l’importanza di Perù e Bolivia sulle rotte internazionali del narcotraffico.
Il presidente boliviano Evo Morales, ex sindacalista dei “cocaleros”, ha imposto una profonda revisione della legislazione relativa alla coca negli ultimi anni, con l’obiettivo di tutelare il valore culturale che il popolo boliviano, costituito oltre il 60% da indigeni, attribuisce alla pianta. La nuova Costituzione, promulgata nel 2009, riconosce espressamente la coca come patrimonio nazionale della Bolivia. Una norma a cui si è aggiunta la decisione del governo boliviano di non applicare più l’art. 49.2 della Convenzione di Vienna sugli stupefacenti, depenalizzando la pratica della masticazione delle foglie. Morales ha anche introdotto il sistema del “cato” di coca per garantire una sorta di controllo sociale sulle piantagioni. Ad ogni agricoltore affiliato ad una federazione di cocaleros spetta una superficie di 1600 metri quadrati da coltivare, misura ritenuta sufficiente per assicurare la sussistenza del singolo nucleo familiare, evitando così che venga prodotta una quantità di coca in eccesso.
Mario Magarò