Alba me l'aveva detto: “leggilo, ne vale la pena”. Eravamo a cena, a New York, ed ero reduce da 20 intensissimi giorni on the road per seguire le elezioni forse più imprevedibili che la storia americana recente ricordi. Non volevo pensare al lavoro, ma il tema del nazionalismo bianco mi stuzzicava.
“The white flight of Derek Black” è uno di quegli articoli che ti ricordano perché abbia senso fare del giornalismo. Non è solo scritto meravigliosamente, tanto da risucchiarti nella lettura come un grande classico, ma è anche una storia appassionante e commovente.
La storia di un cambiamento inimmaginabile, frutto del caso, del dubbio e dell’amicizia.
Derek Black portava un cognome pesante, nel mondo della supremazia bianca. Aveva respirato quell’ideologia fin dalla culla. Padre, padrino, madre: tutti gli avevano insegnato che la razza bianca era superiore alle altre, che gli ebrei erano manipolatori, menti di una cospirazione per la conquista del mondo.
A scuola c'era andato solo per un po', troppi immigrati. Meglio istruirlo a casa.
Era cresciuto in un momento di trasformazione del movimento. Quando si cominciava a capire che quella parola – supremazia – doveva sparire. Ispiratrice com’era stata anche di efferati delitti.
Nazionalismo bianco: i principi ispiratori erano ancora lì, immutati. I nemici anche. Ma cominciava a farsi largo l’idea che fosse meglio non eliminarli. Cattiva pubblicità. Meglio provare a privarli dei diritti civili, per esempio, insinuandosi nella società e nella politica.
Derek si trovava al crocevia di questo cambiamento. Suo padre credeva in lui. Tutti i nazionalisti bianchi credevano in lui, l’”erede”. Ma Derek Black era destinato altrove. Questo webdocumentario in tre episodi, uno a settimana per i prossimi tre lunedì, vi racconterà dove.
Alessandro Chiara