Pioveva forte la mattina del 14 agosto a Genova. Poi all'improvviso un boato. Le campate centrali del viadotto Morandi sono precipitate 50 metri più in basso. Hanno schiacciato le auto e i camion che viaggiavano in quel momento. Si sono abbattute su alcuni capannoni industriali e sulla strada che collega l'entroterra genovese al mare. A essere risparmiate sono state solo le abitazioni poste più a est.
È una scena da post bombardamento quella che si sono trovati di fronte i primi soccorritori, giunti sul luogo della tragedia pochi minuti dopo. Incredulità e sbigottimento per il crollo di quello che i genovesi chiamano da sempre "il ponte di Brooklyn". Per 72 lunghe ore i Vigili del fuoco hanno lavorato senza sosta, nel tentativo di salvare quante più vite possibili. Per tutti resta l'amarezza e il dolore di estrarre molti corpi senza vita dalle lamiere. Il bilancio finale è di 43 morti e 9 feriti.
"Spesso è traumatizzante lavorare in un luogo di crollo, ma negli anni ci siamo abituati a farlo, creando uno scudo emotivo", commenta il direttore-vice dirigente del Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova, Francesco Filippone, rientrato in fretta dalle ferie per coordinare il lavoro dei colleghi. "In poche ore c'erano circa 200 pompieri all'opera. Dopo 4 ore erano 450". Per quattro giorni, fino al 18 agosto, hanno scavato nella speranza di trovare ancora qualcuno vivo. Ora resta lo scheletro di un ponte e la drammatica visione di una città tagliata in due.
A emergenza finita, continuano le operazioni di smaltimento e selezione dei detriti che occupano il letto del fiume Polcevera. La magistratura ha predisposto il sequestro delle macerie. Lì in mezzo potrebbe trovarsi la spiegazione di quanto è accaduto.