"Ho portato via alcune cose. Ma quello che non posso più portare con me è la mia casa". Giancarla Lazzari è nata a Genova, in via Porro 10, nel 1959. Dalla sua finestra ha visto costruire quel maledetto ponte crollato un mese fa. "L'ho sempre chiamato il mio ponte e adesso non c'è più". Era affacciata alla finestra anche il 14 agosto alle 11.37. Poi un boato e ha visto le campate centrali del viadotto Morandi collassare nel vuoto, schiantandosi nel letto del fiume Polcevera in secca.
Da quel giorno, lei e altre quasi 600 persone, sono rimaste senza casa. Gli abitanti della zona sono stati evacuati immediatamente per il timore che il pilone est, ormai un moncone sospeso sulle case, potesse abbattersi uccidendo molti altri, oltre ai 43 che transitavano su quel ponte.
Al via, intanto, le valutazioni tecniche per l'abbattimento del viadotto, simbolo della rivoluzione industriale di Genova. Sotto le macerie del suo scheletro, scompariranno anche le case. Ma gli sfollati, uniti anche sulla Rete dal gruppo Facebook “Quelli del ponte Morandi”, da dove forniscono informazioni e aggiornamenti, promettono battaglia finché tutte le loro cose non saranno recuperate. “In quelle case c'è ancora tutta la nostra vita”, commenta Luca Fava, avvocato e membro del comitato.
La magistratura ha aperto un'inchiesta per accertare le responsabilità. Il Governo italiano ha puntato il dito da subito contro Autostrade per l'Italia, società concessionaria di quel tratto e di gran parte della rete autostradale italiana, che ha iniziato a indennizzare gli evacuati con circa 10'000 euro ciascuno, in attesa del calcolo definitivo per coprire l'intero danno.
Pesa, però, l'incertezza sul futuro gli sfollati. A quasi la metà di loro, il Comune di Genova ha già assegnato un alloggio per un anno - tempo stimato per risolvere l'emergenza -. Per tutti gli altri, è prevista una sistemazione entro la fine di novembre.
Massimo Lauria