L’Argentina è il Paese al mondo che più di ogni altro ha saputo affrontare le ferite del suo passato, nella fattispecie i delitti commessi durante l’ultima dittatura militare (1976-1983). Dal 2003 ad oggi sono stati aperti 600 processi, 2.450 gli imputati, più di mille le persone condannate, la metà delle quali è attualmente in carcere. Un lavoro enorme reso possibile grazie alle prove raccolte per anni dai famigliari delle vittime. Una lotta condotta soprattutto al femminile, fra le nonne e le madri dei desaparecidos. Lita Boitano ha perso i suoi due figli, Michelangelo e Adriana, sequestrati nel 1976 e 1977 e mai più tornati a casa. “Non abbiamo mai perso la speranza. Prima speravamo che tornassero vivi; poi, quando abbiamo capito che li avevano uccisi, è cresciuto il desiderio di giustizia”.
Il Centro di Studi Legali di Buenos Aires (Cels) ha seguito con i suoi avvocati decine di questi processi. “Il caso argentino – spiega Diego Morales – è esemplare per due ragioni. La prima è che tutto si è svolto seguendo la giurisdizione comune, dando agli accusati ampio diritto di difesa. Non c’è stato, per intenderci, nessun tribunale speciale. L’altra è che di fronte al muro di silenzio dei militari, i famigliari non hanno mai smesso di raccogliere le prove risultate poi utili ai magistrati”. Oggi c’è molta incertezza sul futuro dei processi; alcuni sono stati sospesi, altri vanno avanti molto a rilento. L’attuale presidente Mauricio Macri non si è mai espresso sulla questione e alcuni esponenti del suo governo hanno parlato della necessità di “porre una pietra sul passato”. Il tempo è essenziale perché diversi testimoni e imputati, nel frattempo, stanno morendo di vecchiaia. “Non tutti gli assassini sono in prigione - spiega Hebe de Bonafini fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo - ma abbiamo almeno salvato la memoria storica. La società, qui e fuori, li ha condannati per sempre”.
Emiliano Guanella