A tre anni dall’inizio della "rivolta del pane" in Sudan, che l’11 aprile del 2019 portò alla caduta del regime trentennale dell’ex presidente Omar Hassan al-Bashir, il 19 dicembre sono tornate in piazza a manifestare milioni di persone in tutto il Paese.
Da quando lo scorso 25 ottobre i militari hanno posto fine con un colpo di Stato alla transizione democratica avviata dal Governo del premier Abdalla Hamdok, i manifestanti sfidano brutali repressioni e abusi per difendere il loro diritto alla libertà e al cambiamento.
Le proteste non si sono fermate neanche dopo il reinsediamento del Primo ministro, grazie all’intervento di organismi internazionali, e nonostante il bilancio di 50 morti, 5 dispersi e centinaia di feriti in gravi condizioni per i colpi di arma da fuoco esplosi dalle "Rapid support" per disperdere la folla.
L’escalation di violenze in Sudan è deflagrata nel cuore del Paese, a Khartoum, e si è estesa fino alla regione del Darfur e a Port Sudan.
L’Alleanza delle Forze del cambiamento e delle libertà, che comprendono l’Associazione dei professionisti sudanesi e i partiti dell’opposizione, ha chiarito che non c’è alcuna possibilità di riprendere il dialogo con i militari denunciando la volontà dell’esercito di colpire con l’intenzione di uccidere.
Abbiamo potuto constatare, documentandolo sul posto, l’uso spropositato di forza contro manifestanti pacifici.
Partecipando ai cortei e raccogliendo le loro voci è apparso chiaro che il popolo sudanese non perdonerà le repressioni, gli arresti di massa e le uccisioni che sono seguite al massacro del 3 giugno 2019, quando chi scrive, a Khartoum per seguire le rivolte, è stata fermata e trattenuta per ore dai servizi di sicurezza per essere sottoposta a un interrogatorio coercitivo.
Oggi, pur essendo cambiati in parte i vertici delle forze di sicurezza, i metodi brutali per reprimere il dissenso sono gli stessi e questo determina l'impasse politica tra civili e militari.
Il generale Abdel Fattah al-Burhan, autore del golpe che aveva esautorato il premier Hamdok tenuto agli arresti domiciliari per 26 giorni, ha insediato il nuovo Consiglio sovrano da lui guidato e non ha alcuna intenzione di lasciare il potere come chiede la società civile.
Appare dunque lontana, per ora, una soluzione politica nonostante la forte pressione internazionale, in particolare degli Stati uniti, per la ripresa di una transizione pacifica e democratica.