Letteratura

Gatto e padrone

Bébert, storia di un felino che ha vissuto gli orrori della storia e reso eterno nei libri di Louis-Ferdinand Céline

  • 28 agosto, 09:19
  • 28 agosto, 11:31
 Louis-Ferdinand Céline, 1932

Louis-Ferdinand Céline, 1932

  • Wikipedia
Di: Mattia Mantovani

«Il mio gatto fa quello che io vorrei fare, con meno letteratura». La frase è di un “gattologo” doc come Ennio Flaiano: magnifica nella concisione, verissima nel contenuto. Perché il gatto non è un “semplice” animale, è piuttosto una visione delle cose di questo basso mondo, una percezione/concezione della vita che fa idealmente da controcanto alla sciagurata frenesia degli umani e alla loro perenne corsa dietro il vento. Elegante ed elusivo, poco incline ai sentimentalismi e alle pappe del cuore, e tutt’altro che conformista, il gatto è inoltre totalmente sprovvisto dell’istinto del gregge connaturato negli uomini. Ma a volte capita che perfino i gatti vengano coinvolti nel nulla comune e travolti dal turbine insensato delle vicende umane.

E’ il caso di uno dei gatti più celebri della storia della letteratura, l’eroico Bébert, che i lettori di Louis-Ferdinand Céline conoscono dalle pagine di Normance, di Pantomima per un’altra volta e soprattutto della cosiddetta Trilogia del Nord (Da un castello all’altro, Nord e Rigodon), i grandi e tormentati romanzi che l’autore del Viaggio al termine della notte scrisse negli ultimi dieci anni di vita, dal 1952 al 1961, raccontando l’odissea dell’esilio in Germania e Danimarca, alla fine del secondo conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra.

Il Céline che nel luglio 1951 fa ritorno nell’odiamata Parigi è un personaggio fortemente compromesso, perché i libelli antisemiti che ha dato alle stampe tra il 1937 e il 1941 (Bagatelle per un massacro, La scuola dei cadaveri e Le belle rogne) e la collusione col governo collaborazionista di Pétain lo hanno trasformato nel nemico pubblico numero uno, che la canaglia dei benpensanti vorrebbe mettere al bando. Céline sconta in particolare la pubblicazione del primo dei tre libelli: il famigerato Bagatelle per un massacro, sgradevolissimo e inaccettabile quanto imprescindibile, perché rimane malgrado tutto uno dei grandi libri del Novecento. Chiunque abbia avuto la ventura di leggerne la traduzione italiana, pubblicata dall’editore Guanda nel lontano 1981 ma subito (e molto ipocritamente) tolta dal commercio, sa benissimo che in quelle pagine, in mezzo a tanti irriferibili sproloqui, ci sono talune verità sconvolgenti e difficili da ammettere, più ancora da confessare, soprattutto perché inquadrano e focalizzano l’immenso mare di melma nel quale stiamo annaspando ormai da decenni.

Il tradimento dei chierici, la cultura come semplice orpello, la democrazia pervertita in democratismo o “commedia delle urne” (la definizione è di Max Frisch), le ubriacature pubblicitarie («Pubblicità! Che cosa chiede tutta la folla moderna? Chiede di mettersi in ginocchio davanti all’oro e davanti alla merda!... Ha il gusto del falso, del bidone, della cazzata farcita, come mai nessuna folla in tutte le peggiori epoche antiche…»), l’idiozia di massa, i totalitarismi nascosti nelle pieghe e nelle piaghe della più sordida quotidianità, e infine l’odio assurdo, viscerale, ignobile e immotivato nei confronti del diverso, la difesa timorosa di un benessere da alienati: nelle sconcissime e talora deliranti pagine di Bagatelle per un massacro, in un disordine affabulatorio che sconfina nel marasma e nel pretto turpiloquio, c’è il ritratto deformato, ma tanto più preciso e impietoso, di una civiltà al tramonto, senza bellezza e senza gloria. Il gatto Bébert è stato un silenzioso testimone malgré lui dell’inferno del secolo breve e degli orrori che ne hanno preparato e contrassegnato la deriva. Come ha scritto Céline nell’incipit di Bagatelle: «Il mondo è pieno di gente che si dice raffinata e che poi non è -ve l’assicuro- raffinata neanche tanto così».

Il proscritto Céline, al ritorno in Francia, non intende tacere al cospetto dell’«inchiostreria» e vuole riprendere il proprio posto nelle patrie lettere. E quindi si difende attaccando tutto e tutti (in particolare l’odiatissimo Sartre, che ricopre di insulti), creando e ricreando uno stile, la petite musique, che costituisce uno degli esiti insuperati dell’intera letteratura del Novecento insieme al “flusso di coscienza” di Joyce (ma le prime tracce si trovano nel romanzo Nebbia di Miguel de Unamuno e nel tardo racconto La lampada verde di August Strindberg) e all’“arte dell’esagerazione” di Thomas Bernhard.

Il mezzo espressivo adottato da Céline è quello della féerie, la pantomima, una specie di sabba infernale fatto di libere associazioni di pensieri, invenzioni lessicali, slogature ritmiche, impensate scansioni sillabiche e vertiginose assonanze fonetiche che creano un corto circuito tra lo scritto e il parlato. E’ su questa base che si innesta la cronaca precisa e dettagliata della lunga stagione all’inferno che lo stesso Céline, reietto e fuggitivo, ha vissuto insieme alla moglie Lucette e al fascinoso e ineffabile Bébert. Ma chi era questo fascinoso e ineffabile felino?

Louis-Ferdinand Céline, Bébert e il giornalista André Parinaud a Meudon nel 1955.JPG

Louis-Ferdinand Céline, Bébert e il giornalista André Parinaud a Meudon nel 1955

Lo spiega un prezioso volumetto uscito in Francia nell’ormai lontano 1976 e più volte ristampato. Il libro si intitola Bébert - Le chat de Louis-Ferdinand Céline ed è opera di Fredéric Vitoux, tra i massimi esperti internazionali di Céline e autore tra l’altro di una monumentale biografia dello stesso Céline, edita da Gallimard. E’ molto interessante notare che la biografia di Bébert precede di circa un decennio la grande biografia che Vitoux dedicò a Céline e per molti versi la introduce, perché la biografia del gatto è anche indirettamente la biografia del suo padrone e insieme la cronaca degli anni più bui della storia francese ed europea del Novecento.

Delle origini di Bébert si sa poco. Era sicuramente, come il Romeo de Gli Aristogatti (che in sostanza è la sua versione imborghesita e preservata dagli orrori della Grande Histoire), un cosiddetto chat de gouttière, un randagio che nacque con ogni probabilità nel 1935 nella regione di Parigi e fu subito abbandonato. Venne poi messo in vendita nei grandi magazzini della Samaritaine, dove fu acquistato da Robert Le Vigan, uno dei più celebri attori dell’epoca, che a sua volta lo regalò a Tinou, una figurante di origini algerine che sarebbe in seguito diventata sua moglie. Ma nel 1942, mentre l’intera Francia è nel caos, i due divorziano e Bébert torna alla condizione originaria di randagio.

Bardamu’

Con i testi che ci abbiamo 30.04.2024, 11:45

E’ a quel punto che entrano in scena Céline e sua moglie Lucette, vicini di casa dei Le Vigan. Lo scrittore adotta il gatto, e due anni dopo, quando fugge dalla Francia insieme a Lucette, con loro c’è anche Bébert chiuso in una sporta. Il gatto si trova quindi ad essere testimone -ma talora anche deuteragonista- della fuga di Céline: lo troviamo dapprima a Baden-Baden e poi a Sigmaringen, a Berlino sotto le bombe e infine nell’esilio danese di Korsør, raccontato nel film Louis-Ferdinand Céline - Deux clowns pour une catastrophe di Emmanuel Bourdieu, con Denis Lavant, Géraldine Pailhas e Philip Desmeules nei ruoli principali. Quando Céline fa ritorno in Francia, Bébert ha quasi diciassette anni, è anziano e malato, e infatti morirà nel 1956 nella casa di Meudon trasformata in un piccolo zoo. Muore al termine di una vita lunghissima e avventurosa, dopo aver assistito al suicidio della vecchia Europa, ma a quel punto comincia a rivivere nella reinvenzione di Céline, che lo eterna nelle pagine dei suoi ultimi romanzi.

Con un paragone molto indovinato, Vitoux parla di Bébert come una specie di «liquido di contrasto» che svela le incoerenze di Céline, ne demistifica le allucinazioni e ne stempera le paranoie, e in questo modo ne porta alla luce le verità più profonde: «Quando il gatto entra in scena, nella scrittura riaffiora la verità», perché Bébert ha lo straordinario merito di svelare al padrone «il machiavellismo degli attori e l’inanità delle scenografie, mostrandogli il lato occulto del dramma». Non si tratta quindi di una semplice “spalla” passiva, perché Bébert agisce: «Il gatto si insinua nei minimi interstizi, compare lì dove nessuno se lo aspetta, al suo contatto le maschere cadono, gli attori cessano di recitare, le tavole del palcoscenico sprofondano, i labirinti si sbrogliano e la menzogne vanno in pezzi».

Tra i moltissimi passi nei quali Céline ha eternato Bébert, spicca un ritratto contenuto in Da un castello all’altro (qui nella traduzione di Gianni Celati), nel quale è davvero difficile dirimere la figura del padrone da quella del gatto: «Lui, il terribile felino indipendente, il disobbediente rifinito, altro se stava incollato ai nostri calcagni…! Si vedeva già artigliato…! Il bello del mondo degli animali è che sanno senza dirselo, tutto completamente tutto…! E subito! Alla velocità della luce…! Noi abbiamo la testa piena di parole, spaventando il male che ci facciamo per finire di rimberluccarci nel peggio! Più niente sapere…! Smanacciare tutto, ma afferrare niente...». Si tratta di un passo molto rivelatore, anche perché spiega con qualche anno d’anticipo la dedica “agli animali” posta in esergo a Rigodon, il romanzo/resa dei conti che Céline ha terminato di scrivere nel giugno 1961, pochi giorni prima di morire, e si chiude con una frase lapidaria che dice tutta la verità di una vita e possiede l’amaro retrogusto di una sentenza: «Que plus rien existe», «Che più niente esiste…». La si potrebbe leggere anche in questo modo: gli umani hanno fallito, gli unici a salvarsi sono gli animali.

Per essere autentici, diceva spesso il suo padrone, «il faut noircir et se noircir»: «bisogna sporcare e sporcarsi». Bohémien e aristogatto, umano troppo umano ma anche sciolto liberato e affrancato dalle miserie bassezze e infamie degli umani, per una sorta di singolarissima proprietà transitiva Bébert incarna non solo “l’emozione primordiale” che Céline ha restituito nella scrittura e con la scrittura, ma anche -e conseguentemente- i tratti di fondo della condizione umana. Lo scopo della vita, aveva scritto lo stesso Céline in un passo del Viaggio al termine della notte, ben prima di conoscere l’alter-ego Bébert, consiste nel tentativo di diventare sé stessi prima di morire. Il fido Bébert, con la sua silenziosa eloquenza, lo ha aiutato e accompagnato -e continua idealmente ad aiutarci e accompagnarci dalle pagine del suo autore e padrone- in questa difficilissima e forse impossibile impresa.

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