C’è un rumore che ti accompagna sempre a Beirut in questi giorni. Non sono i generatori che, da tempo ormai, sopperiscono alla scarsa fornitura di elettricità, né quello delle autobotti che girano per tutta la capitale per cercare di alleviare la cronica mancanza d’acqua. È un rumore che riesce a sovrastare anche quello del traffico, quasi sempre bloccato e impazzito, di questa città disastrata, capitale di una nazione ormai fallita già prima degli ultimi, drammatici, avvenimenti. È il ronzio, costante, dei droni israeliani da ricognizione che scansionano in continuazione, dall’alto, la città, in cerca di obiettivi da colpire quando cala il buio, per aggiungere un capitolo al sanguinoso bollettino di guerra tra Netanyahu ed Hezbollah.
Si aggrava la crisi umanitaria
Le aree meridionali di Beirut, storicamente roccaforti di Hezbollah, sono state pesantemente bombardate, e le condizioni di vita per i residenti sono diventate insostenibili. Molti sfollati si sono riversati nei sobborghi o hanno cercato rifugio da altre città del Libano, soprattutto dal Sud che è sotto i bombardamenti israeliani, aggravando una crisi umanitaria già drammatica. L’immessa Piazza dei Martiri, che dovrebbe essere il centro geografico della città, sembra un’area disastrata, popolata da un’umanità disperata, che si accalca in tende di fortuna, mentre tutt’attorno i palazzi delle banche e delle grandi società restano circondati da transenne e sbarre, guardati a vista da guardie armate. Stessa situazione lungo la spiaggia, sul lungomare un tempo elegante di Beirut, dove la distesa di materassi di gommapiuma su cui si accalcano, una sull’altra, intere famiglie di sfollati, aumenta sempre di più. Con l’autostrada tra il Libano e la Siria interrotta dai crateri creati dai bombardamenti israeliani e dopo l’ordine di evacuazione da parte dell’esercito di Tel Aviv di tutte le spiagge a sud del fiume Awali, il numero de profughi interni supera ormai il milione di persone. Un quinto della popolazione. E sono in aumento.
Profughi sul lungomare
In base alle loro possibilità, gli sfollati meno disperati vivono in hotel che pagano di tasca loro, oppure in scuole trasformate in rifugio. La loro situazione è paradossalmente più grave a causa del (momentaneo?) collasso di Hezbollah, che non è soltanto una milizia armata, ma è anche il partito politico che ha preso più voti in Libano (il 19,9% alle ultime elezioni, nel maggio 2022), e gestiva anche i fondi proveniente da diverse “fonti” amiche – in primis l’Iran – per una sorta di “welfare” di base per la popolazione libanese. Oggi non più.
Sul lungomare incontro dei volontari che mi raccontano la storia di un bambino che stanno assistendo, di una famiglia sciita proveniente dalla zona di Tiro, dove fino a una settimana fa, grazie all’aiuto del convento gestito dal parroco fra Toufiq Bou Merhi, riuscivano ad assicurarsi un po’ di cibo, farina, pane. Mancava un ingrediente per il pranzo, così il padre ha mandato il più piccolo dei figli ad acquistarlo. Poco dopo un missile è caduto sulla casa, uccidendo tutti quanti, tranne il bambino che era andato a fare la spesa… Un’altra famiglia proviene dal villaggio di Ain Ebel. Hanno ricevuto un avvertimento da parte israeliana che intimava di lasciare il villaggio, perché l’esercito di Tel Aviv era in procinto di attaccare per distruggere vari obiettivi terroristici. Così la famiglia ha dovuto sfollare senza sapere bene dove andare, perché molte strade sono ormai danneggiate dai bombardamenti. Hanno ripiegato su un villaggio non distante che sembrava più sicuro, ma sono finiti intrappolati in una zona molto vicina alla frontiera con Israele. Sono riusciti a scappare e, con l’aiuto di altri volontari, sono arrivati qui a Beirut. Senza niente. E sono finiti qui, sul lungomare di Beirut.
Poco distante, su Armenia Street, la strada della movida, al calar della sera l’edificio della Electricité du Liban – la Compagnia elettrica del Libano – si alza abbandonato, spettrale, rimasto praticamente nello stesso stato in cui lo ha ridotto la terrificante esplosione del Porto, ormai quattro anni fa. Di fronte, una vera e proprio montagna alta almeno quindici metri, formata dai profilati di alluminio sventrati dall’esplosione, accumulati lì.
Un città in ginocchio
La Beirut di questi giorni è una città in ginocchio, colpita da un conflitto che non mostra segni di tregua. La popolazione vive nel terrore di nuovi bombardamenti e, con Hezbollah che promette nuovi attacchi e Israele determinato a eliminare la minaccia, l’unica cosa che rimane alla gente è la rassegnazione. “Sai qual è il posto più sicuro dove stare adesso?”, mi dice il tassista, Ali, mentre cerca di venire a capo dell’ennesimo ingorgo colossale, “una casa dove abiti tu soltanto… tipo una villa, hai capito? Così sei sicuro che li attorno, sopra o sotto di te o a lato, non c’è nessuno di Hezbollah che gli israeliani vogliano ammazzare. Perché puoi star sicuro” conclude rassegnato, “che se sei vicino a uno di loro, non importa agli israeliani quanta gente c’è attorno. Siete già tutti morti”.
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