ANALISI

Quali carte ha ancora in mano l’Europa?

La svolta di Trump sull’Ucraina si ripercuote sul ruolo dell’UE nel contesto globale: il punto sui rischi di una marginalizzazione e sulle risorse per evitarla

  • Ieri, 06:00
  • Ieri, 12:57
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Intervista ad un esperto di relazioni internazionali

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Di: Alex Ricordi 

Il riavvicinamento fra Stati Uniti e Russia, nell’ottica di una cessazione della guerra in Ucraina, ha di fatto messo ai margini l’Unione Europea. Un effetto, quello determinato dalla nuova politica di Trump, che ha una portata inequivocabile e che induce a più interrogativi sul peso concreto dell’UE nel mondo e sugli eventi, drammatici, che continuano a consumarsi proprio alle sue porte di casa. Non sono in pochi, ora, a individuare nell’Europa una grande perdente nel quadro geopolitico. Ma le cose stanno davvero così?

“Mi sembra un giudizio prematuro e ingeneroso”, risponde Vittorio Emanuele Parsi, docente all’Università Cattolica di Milano ed esperto di relazioni internazionali. È certo che l’Europa, viste tutte le implicazioni della guerra in Ucraina, sta sempre affrontando la “più grande sfida esistenziale che abbia mai incontrato sul suo cammino”. Ora è intervenuto questo “voltafaccia degli Stati Uniti”, mentre per l’UE la posta in gioco riveste sempre “un carattere legato proprio alla sua identità”: quella della “più grande istituzione internazionale costruita nel secondo dopoguerra”. Tuttavia l’Europa, afferma il politologo, “ha ancora gli strumenti per riuscire a reagire a questa situazione”. Occorre però “un salto di consapevolezza politica” che dipende dalla qualità delle leadership.

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Vittorio Emanuele Parsi è professore all'Università Cattolica di Milano

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Proviamo allora a fare il punto sull’annosità dei problemi che, per l’UE, si sono tradotti in una perdita di peso specifico. “Un male” che ha poi finito per indurre “tutti gli altri” risiede nel fatto che l’Unione, fino a questo momento, non è stata in grado “di fare una trasformazione in soggetto politico unitario” - pur nel quadro di una struttura basata sui Paesi membri - che le consentisse di esplicitare “una proiezione verso l’esterno delle sue straordinarie capacità politiche ed economiche”. Si tratta, spiega Parsi, di un fallimento che “rimonta a prima dell’invasione russa dell’Ucraina” e che però in qualche modo “ne spiega l’avvenimento”. E questo poiché la “politica di vicinato attuata verso il Mediterraneo e l’Est europeo” per circa vent’anni “non ha prodotto quell’anello di amici”, ossia di regimi omologhi, “che l’UE aspirava a realizzare”.

I problemi dell’economia

Da questo dato discende anche un modello economico che si è basato, sostanzialmente, sul “primato delle esportazioni fuori dall’area della stessa Unione”. Ma ciò ha posto in essere un paradosso: “il grande mercato unico”, infatti, finisce per rappresentare “quasi più un’opportunità per quelli che stanno fuori, che non per quelli che stanno dentro”. Un altro aspetto problematico è poi dato dall’incapacità a reagire a shock, come quello che venne innescato dalla crisi pandemica, “per iniziare a costituire” in modo permanente “lo strumento del debito comune” in funzione delle “diverse contingenze di emergenza che potevano pararsi di fronte all’Unione”: ieri appunto il Covid, oggi la guerra in Ucraina e domani, magari, “la necessità di essere autosufficienti rispetto agli USA”.

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Operai al lavoro in una fabbrica di turbine in Germania: nell'UE, rileva Parsi, la competitività economica è stata inseguita comprimendo in modo eccessivo i costi del lavoro

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Restando però sul terreno dell’economia, come si spiega una certa perdita di slancio dell’UE rispetto agli altri maggiori attori internazionali? Da un lato è stata inseguita “una competitività, comprimendo in maniera eccessiva il costo del lavoro”. Ma dall’altro non si è poi investito su una “formazione delle giovani leve” orientata non all’immediato, ma proprio a quella “capacità di apprendere” che consente di migliorare le proprie qualità in un contesto che richiede continuamente competenze e metodologie nuove. “A me pare”, osserva Parsi, che su questo l’Europa sia stata timida” e che abbia negli ultimi vent’anni “un po’ paradossalmente scimmiottato” certi “modelli provenienti da oltreoceano”, rinunciando “a quello che era il suo modello originario”.

Un discorso, questo, che, sullo sfondo delle attuali dinamiche, assume una più ampia valenza nel raffronto con altri attori. E in questo senso l’esperto cita il discusso intervento del vicepresidente americano J.D Vance, durante la recente Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera. Un discorso “arrogante, durissimo” e che a ben vedere si attaglia anche ad un “modello economico di compressione delle classi lavoratrici, a favore degli interessi del grande capitale” finanziario e tecnologico. Il tutto nel segno di un paradigma capitalista “sempre più apertamente orientato a oligopolio, quando non a monopolio”.

Il futuro dell’asse franco-tedesco

Anche su questo terreno, insomma, l’Europa è chiamata a mantenere salda la sua identità. Ma che dire intanto di instabilità politiche che hanno senz’altro lasciato il segno? Pensiamo in particolare a Francia e Germania: la prima continua ad attraversare una fase politica problematica, mentre la seconda è confrontata a non poche incognite dopo l’esito delle recenti elezioni. Ha fatto quindi il suo tempo quell’asse franco-tedesco, su cui l’Europa si è storicamente sviluppata? In realtà “quella centralità non può venir meno”, afferma Parsi, ricordando che “la statualità europea di tutti Paesi europei” si è storicamente costruita riferendosi ai modelli istituzionali di Francia e Germania.

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L'asse franco-tedesco mantiene la sua centralità per il futuro dell'Unione Europea

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Ci sono poi altri elementi da sottolineare. La Germania ha i suoi problemi, ma è anche un Paese che “ha dimostrato comunque una capacità di affrontare a viso aperto alcune importanti sfide”: non sempre riuscendoci, ma cercando comunque “soluzioni innovative”, spiega l’esperto, riferendosi a dossier come l’immigrazione. Inoltre ha anche accettato “il confronto politico con le forze più populiste, senza temerlo ma non venendo meno ai suoi principi costituzionali”. Quanto alla Francia, essa rimane pur sempre “l’unica grande potenza in Europa”: dotata di una capacità militare nucleare e sempre attiva nello sviluppo dell’energia atomica a uso civile. Due componenti importanti per l’Europa che, proprio per il suo futuro, dovrà “andare sempre più verso una capacità strategica autonoma” e “riprendere seriamente in considerazione la produzione di energia” attraverso l’atomo.

Ucraina e aderenza ai valori europei

Intanto l’attenzione continua a concentrarsi sugli sviluppi che concernono l’Ucraina. Gli Stati Uniti hanno ormai abbandonato il confronto a muro duro col Cremlino e a profilarsi, sotto le pressioni di Trump, è una qualche composizione del conflitto che andrebbe a tutto vantaggio della Russia. Per parte sua, però, l’UE ha ugualmente disposto un nuovo pacchetto di sanzioni contro Mosca. Qui sottolinea Parsi, emerge un aspetto fondamentale. Il varo delle nuove sanzioni si innesta infatti nella continuità della politica europea, che è quella di non venir meno ad un principio di natura non solo etica, ma anche pratica: perché “travisare la realtà, attraverso una serie di menzogne che invertono la relazione fra aggredito e aggressore, non è un servizio buono” non solo nei confronti dell’Ucraina ma neppure “per la possibilità di affrontare qualsiasi tipo di problema”, dato che “le chiacchiere non cambiano la realtà”.

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Ursula von der Leyen, presidente della Commissione UE, durante il suo recente incontro a Kiev con Volodymyr Zelensky

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Restare saldi su questo punto è quindi essenziale, anche per lanciare un preciso segnale agli Stati Uniti. Ma è altresì fondamentale che l’UE “si muova rapidamente” per confrontarsi al “drastico cambiamento” che la nuova amministrazione USA “ha impresso alle relazioni transatlantiche” dopo appena un mese. “Ci aspettano, è vero, altri quattro anni di Trump” e di questo va preso atto. Ma detto ciò va comunque considerato che “vengono al primo posto” quei principi e valori “sui quali soli è possibile pensare ad un’unificazione europea”. Perché se si abdicasse a questi principi, “diverrebbe impossibile mantenere l’attuale Unione”. Per l’UE, in sostanza, questo aspetto investe la sua stessa identità ed è quindi di portata capitale.

Una difesa da rafforzare

In che misura la fine del conflitto in Ucraina potrebbe accentuare una minaccia russa nei confronti dell’UE? A questo inquietante interrogativo si legano le dichiarazioni del premier francese François Bayrou, il quale, proprio di recente, ha apertamente evocato il rischio di una guerra che, per la prima volta dal 1945, potrebbe in un avvenire arrivare in Europa. Ma si tratta, commenta Parsi, di un’insidia “già presente dall’invasione dell’Ucraina”, perché è in realtà da allora che la guerra è “sul suolo europeo”. L’Ucraina, sottolinea il politologo, “è la soglia d’Europa ed è un Paese” che è stato invaso proprio “per la sua volontà di aderire un giorno all’Unione Europea”.

È ora chiaro che una svolta come quella decisa da Trump “aumenta da vicino” i rischi. Ecco perché è così “fondamentale che l’Europa, il prima possibile” inizi a muoversi verso “un maggior coordinamento e una maggiore assunzione di rischi nella politica di sicurezza e di difesa”. In questo senso è importante che si proceda nella direzione di una capacità molto maggiore “dell’industria militare europea di lavorare insieme”. L’esperto evoca quindi anche l’esigenza di “cartelli transnazionali” fra le industrie della difesa nei Paesi membri, in modo da “potersi sganciare da una dipendenza assoluta” in alcuni campi dagli Stati Uniti. Altrimenti, sottolinea, ci si ritroverebbe nella condizione per cui “se ieri era Putin a poterci togliere il gas, domani potrebbe essere l’amministrazione USA” a bloccare “forniture militari o le stesse forniture energetiche”.

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Jet militari sulla linea di assemblaggio di una fabbrica della Dassault, in Francia

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Per tutto questo occorrono evidentemente risorse. È quindi fondamentale che i Paesi europei “aumentino gli investimenti nella difesa” proprio in modo da accrescere “le capacità militari dell’Unione”. In questo senso è determinante “una sospensione del rapporto debito/PIL per ogni spesa che porta all’incremento della capacità di difesa”. Quanto poi all’idea di un vero e proprio esercito europeo, Parsi ritiene che si tratti di una prospettiva utopica, “se pensiamo ad un esercito inteso come una forza armata federale”. Ma se invece “intendiamo un’integrazione forte fra gli eserciti dell’Unione, questa è possibile” e sarebbe anche la “conseguenza logica e automatica di un’unità” su più versanti “a livello dei governi e a livello comunitario”. Come a dire che “se si risolve il problema dell’unità politica, ne consegue” che si avrà “una maggiore unità anche dal punto di vista militare”.

Rimettersi a competere

In conclusione, quali orientamenti dovrà seguire l’UE per evitare una marginalizzazione a livello globale? “Credo davvero che sia solo un problema di guardare al futuro con minor paura” e con “una maggior volontà di modellare questo futuro”, ritiene il politologo, sottolineando che l’Europa rappresenta pur sempre il 16-17% del PIL mondiale: una quota “grande come quella della Cina, tanto per intenderci”.

Il punto è che l’Europa si è impigrita a lungo “in una triade fatta da energia a basso costo, mercati di sbocco facili e protezione garantita da altri”. Ora “questa triade è finita”, ma ciò vuol dire semplicemente che occorre rimettersi “a competere in tutti in campi”. Una sfida che Parsi ritiene sia nelle corde dell’Europa: perché il suo pluralismo “e la ricchezza della sua eredità, significano anche un potenziale enorme” per il suo futuro.

06:23

L'analisi di Romano Prodi

SEIDISERA 21.02.2025, 18:00

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