Dopo l’annuncio del presidente USA Donald Trump della sospensione degli aiuti militari statunitensi all’Ucraina, aumenta la pressione sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Da vari lati: in primo luogo la mossa di Washington è indirizzata a costringere Kiev ad accettare una road map verso la pacificazione che, per forza di cose, data la situazione sfavorevole sul terreno, condurrà l’Ucraina a varie concessioni alla Russia; in secondo luogo il capo di Stato è messo in prima persona in questione, data la reticenza mostrata al compromesso, al di là delle ragioni della sua tattica: per la Casa Bianca il presidente ucraino è un ostacolo al processo di pace e alla ripresa delle relazioni con Mosca, così come si configura negli USA. Dopo lo scontro in mondovisione nello Studio ovale, Zelensky ha incassato il sostegno morale di Bruxelles e di vari leader europei, così come quello sostanzialmente bipartisan dello schieramento parlamentare a Kiev ma la sua posizione è evidentemente indebolita sia sulla scacchiera internazionale che all’interno del Paese.
Gli strappi da ricucire
L’attuale inquilino della Bankova, il palazzo presidenziale in centro a Kiev, ha offerto negli ultimi giorni, simbolicamente, le dimissioni immediate in cambio dell’altrettanto immediata entrata dell’Ucraina nella NATO ma è chiaro che la rottura, personale ma inequivocabile, con Trump lo ha messo in estrema difficoltà. Le dichiarazioni sulla volontà di continuare a voler collaborare con gli USA possono essere considerati tentativi riparatori ma bisognerà aspettare di vedere quali saranno i passi concreti sul breve periodo. E non si tratta solo della firma sull’accordo per le terre rare. Di fronte ai rumors che recentemente sono stati diffusi ad hoc sulla volontà di sostituirlo in corsa da parte dell’amministrazione Trump, ha risposto che il progetto non è così semplice come potrebbe essere. Se ciò è in parte vero, è vero anche appunto che gli Stati Uniti hanno dato segnali di voler accelerare il cambiamento comunque: e nel braccio di ferro tra Casa Bianca e Bankova non è difficile prevedere chi possa prevalere, in assenza di futuri accordi. Non è infatti detto che il duello prosegua davvero, sulla pelle degli ucraini, e gli strappi possano essere anche solo parzialmente ricuciti.
Il piano di Trump
Il piano di Trump sulla via della pacificazione prevede a grandi linee che, dopo il cessate il fuoco e la conseguente abolizione della legge marziale, si possano tenere in Ucraina le elezioni presidenziali e parlamentari e in seguito venga firmato il definitivo trattato di pace con la Russia. Se per il presidente statunitense la priorità è adesso quella di arrivare a un accordo di massima e poi pensare alla questione delle garanzie, per Zelensky e i suoi sostenitori in Europa quest’ultimo punto è fondamentale per il prosieguo dei negoziati: Kiev e Bruxelles devono essere coinvolte nella ridefinizione degli equilibri postbellici e del loro mantenimento. Questa spaccatura nella strategia del frastagliato fronte alleato è fonte di fragilità per il presidente ucraino, che si trova davanti a un bivio: tentare con il sostegno europeo di ridurre le distanze con Washington oppure accettare le imposizioni statunitensi.
La battagli interna
In entrambi i casi a livello interno dovrà combattere un’altra battaglia, quella che lo vede impegnato nella lotta per l’eventuale prossimo voto presidenziale. Di fronte alla crescente pressione statunitense e senza un accordo che gli garantisse l’appoggio per la rielezione, opzione al momento improbabile, Zelensky potrebbe anche decidere di dare le dimissioni ed essere sostituito dal presidente della Rada, il parlamento ucraino, attualmente Ruslan Stefanchuk. Altrimenti si aprirebbe la corsa alla successione, con vari pretendenti. Sebbene non si sia ancora espresso, il personaggio che in assoluto potrebbe puntare alla Bankova con la sicurezza di essere eletto è il generale Valery Zaluzhny, licenziato all’inizio dello scorso anno dal vertice delle Forze armate ucraine e parcheggiato come ambasciatore a Londra. Secondo tutti i sondaggi Zaluzhny vincerebbe facile al secondo turno nel caso di una sfida con Zelensky (53% contro 18% stando ai numeri dell’istituto Socis del 26 febbraio); il generale gode di molta popolarità (74%) e le forze armate hanno una fiducia quasi assoluta tra le varie istituzioni e organi del Paese (92%, dati KMIS del 9 gennaio). Di fronte a questi numeri e alla discesa in campo del generale, Zelensky potrebbe anche rinunciare alla battaglia.
I soliti noti
Diverso sarebbe il quadro se Zaluzhny resistesse alla tentazione personale e ai sussurri d’Oltreoceano e rimanesse, per così dire, neutrale. La corsa alla presidenza sarebbe certamente più aperta, tra i soliti noti come l’oligarca ed ex capo di Stato Petro Poroshenko e volti seminuovi come Kirilo Budanov, capo dell’intelligence militare secondo per popolarità solo a Zaluzhny. Non è escluso che se su Zelensky rimanesse il veto di Trump, gli USA punterebbero su un altro cavallo: ancora da decidere. Come ha dimostrato la stessa elezione di Zelensky nel 2019, la scelta di un nuovo presidente è fatta prima sostanzialmente dai poteri forti e poi fatta suffragare dall’elettorato. Se sei anni fa dietro le quinte ci sono stati gli oligarchi ucraini, questa volta il ruolo maggiore lo avranno probabilmente attori esterni.

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