“Questa terra è nostra”: una frase martellante soprattutto in Cisgiordania, dove quasi mezzo milione di israeliani risiede in insediamenti ritenuti illegali dal diritto internazionale. A Ramallah, a Hebron, a Gerusalemme Est. Zone in cui ci sono i cosiddetti coloni, ben determinati che si oppongono alla soluzione a due Stati ma che non vogliono problemi e neanche interazioni con i palestinesi. E ci sono anche coloni che invece cercano di intimidire i palestinesi: capita spesso che presi dall’odio reciproco si cominci a parole e si finisca sparando. La nostra inviata in Israele e Cisgiordania, Naima Chicherio, ha raccolto per SEIDISERA due storie su questo tema:
“Se questa terra diventerà parte di uno Stato palestinese, quante possibilità avrò di restare qui io che sono ebreo? Zero! Nessuna. Quindi, cosa dovrei fare? Voi in Europa urlate “ebrei tornate da dove siete venuti”, ma è proprio da qui che veniamo”. A parlare, piuttosto seccato, è Benji, un colono a metà fra il moderato e il radicale. Il solo che abbiamo voglia di parlare.
Abita a Migdal Oz, un insediamento ebraico a Gerusalemme Est considerato illegale dalla comunità internazionale. Appena lo incontriamo, chiariamo subito che qualche domanda non gli piacerà. Accetta di stare al gioco e, kippah in testa e fucile d’assalto a tracolla, di mostrarci il villaggio... o colonia come direbbero molti.
“Hei! Questa per noi è casa. Siamo qui da 400 anni. Il termine colonia non tiene conto della storia”, ci dice. La sua è una storia fatta anche di brutti episodi, di conflitti.
“Quanto è lontano il primo villaggio palestinese?”, gli chiediamo. “Ora te lo mostro. Sai quando si parla di sassaiole? È proprio quello che succede”.
“Quindi avete spesso interazioni violente?”. “Non parlerei di interazioni – risponde – Sono attentati terroristici. Ci hanno lanciato molotov contro il cancello. Ci sono stati lanci di pietre e sparatorie lungo questa strada. Fortunatamente ora è più tranquillo, ma se mi vedi correre… corri anche tu!”.
L’ultimo attacco da parte palestinese, dice Benji, risale a poco prima del 7 ottobre (il giorno del sanguinoso attacco di Hamas contro Israele, ndr.).
“Quella è Beit Fajjar, ci abitano 11’000 palestinesi e sono solo 500 metri in linea d’aria: un nulla! Cosa succederebbe se decidessero di fare quello che ha fatto Hamas ai villaggi attorno a Gaza?”, esclama.
Anche i palestinesi sotto attacco
Anche i palestinesi, tuttavia, hanno sempre più da temere: dallo scoppio della guerra ci sono stati molti morti in Cisgiordania, dove a sparare sono sia soldati sia coloni violenti.
“Ci sono alcune, poche persone che fanno queste cose”, ammette Benji, che però aggiunge: “Ma perché non si parla delle auto a cui sparano lungo la strada 60? Due giorni fa, un arabo israeliano ha fatto l’errore fatale di percorrerla con una targa israeliana. I palestinesi gli hanno sparato e lo hanno ammazzato”.
Noi abbiamo recinzioni, filo spinato e telecamere, dice Benji, “noi abbiamo paura mentre loro abitano in villaggi senza fortificazioni perché sanno di essere loro gli aggressori…”
Il giorno dopo ci sono tutte le condizioni da evitare, ma non ci sono alternative. Sono sulla strada 60 su un’auto targata Israele con al volante il fidatissimo Fadi, che è palestinese ed è contento che ci sia la nebbia. Lui ha paura dei soldati.
Siamo diretti a Masafar Yatta, vicino a Hebron, un villaggio povero, pieno di galline e senza recinzioni che subisce le incursioni di coloni radicali muniti di fucile.
A casa di Zakharia è sua moglie ad aprire la porta. Lui è seduto su un letto. È magrissimo, non cammina e sembra più vecchio dei suoi 29 anni. Lo scorso 13 ottobre, un colono gli ha sparato nella pancia a bruciapelo.
Zakharia
“Era un venerdì. Quando sono uscito dalla moschea me lo sono trovato di fronte. Mi ha detto di andarmene e gli ho risposto che no, che questo è il mio villaggio. Ha tentato di colpirmi al petto, ma io l’ho respinto e a quel punto mi ha sparato”.
Zakharia non riesce a descrivere il dolore.
“Quando ero lì a terra, un altro colono che portava la divisa militare gli ha detto di spararmi in testa e di finirmi”.
Zahkaria ha passato in ospedale quasi 100 giorni. È appena uscito, ha perso un rene e buona parte dell’intestino. È vivo per miracolo, dice sua moglie che ammette di non uscire di casa da tre mesi.
E come immagini il futuro per voi e per i vostri quattro figli?
Non ce ne andremo, apparteniamo a questa terra, mi dice, “ma quale sia il futuro nostro e dei nostri figli non riesco neanche ad immaginarlo...”