Lo stato di Chiapas, situato nel sud del Messico, è stato la culla della civiltà Maya, come testimonia l’imponente complesso archeologico di Palenque, immerso nella foresta e meta di visitatori da tutto il mondo.
Con i suoi 5,5 milioni di abitanti, è anche il territorio più povero del Paese e, nell’ultimo anno, è stato travolto da una spirale di violenza senza precedenti. E’ il risultato della guerra tra i due cartelli della droga più potenti, Sinaloa e Jalisco Nuova Generazione. Domenica scorsa sono state scoperte 11 fosse contenenti 15 cadaveri, mentre la settimana precedente un’altra fossa clandestina ha rivelato un numero imprecisato di corpi inceneriti. Scene agghiaccianti, che qui non rappresentano un’eccezione.
Chiapas confina con il Guatemala, diventando un crocevia per i migranti che attraversano l’America Centrale diretti verso gli Stati Uniti. La migrazione, però, è anche un business redditizio che fiorisce nell’illegalità. Per proseguire il viaggio verso gli Stati Uniti, i migranti devono affrontare pagamenti continui, indipendentemente dal successo del loro percorso. Inoltre, i rapimenti a scopo di estorsione sono una pratica diffusa, con i riscatti spesso pagati dai parenti residenti negli Stati Uniti. Controllare le rotte migratorie significa dominare fin dall’ingresso, che avviene alla frontiera tra Guatemala e Messico, passando inevitabilmente per il Chiapas.
Questa realtà migratoria non è nuova, ma negli ultimi anni la situazione è cambiata radicalmente. Durante il mandato del Presidente Andrés Manuel López Obrador, durato dal dicembre 2018 allo scorso ottobre, è stata introdotta la politica sulla sicurezza “Abbracci, non pallottole”. Questa strategia mirava a evitare conflitti diretti con i potenti cartelli della droga, concentrandosi invece sul miglioramento delle condizioni socio-economiche nelle aree più vulnerabili, con l’obiettivo di disincentivare il reclutamento nel crimine organizzato. Tuttavia, questa politica ha contribuito a rafforzare il controllo territoriale dei cartelli della droga.
La pandemia ha ulteriormente aggravato la situazione, lasciando ampi spazi di manovra al crimine organizzato a causa dell’assenza delle autorità. Nel frattempo, le ondate migratorie sono aumentate, in parte a causa dell’instabilità politica in Paesi come il Venezuela e Haiti, e dei disastri naturali legati ai cambiamenti climatici. I cartelli della droga hanno progressivamente cercato di monopolizzare le rotte migratorie, portando a scontri che hanno trasformato il Chiapas in una delle zone più pericolose del Paese. La vicinanza al confine lo rende anche un punto strategico per il traffico di droga e armi.
L’aggravarsi dei conflitti tra gruppi armati locali è stato favorito dall’alleanza tra i cartelli della droga e i gruppi paramilitari, creati negli anni ’90 per soffocare le insurrezioni indigene e che rimangono attivi. A questo si aggiunge la mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine, storicamente coinvolte in soprusi contro le comunità indigene, quando il governo messicano si avvalse di esercito e paramilitari per reprimere la ribellione degli Zapatisti. L’eredità di quel conflitto sopravvive ancora oggi.
Tra sparatorie, estorsioni, rapimenti e reclutamenti forzati, si stima che oltre 10’000 abitanti siano stati costretti ad abbandonare le loro case in cerca di sicurezza. Molti di loro hanno cercato rifugio fuori dal Paese, attraversando il confine per raggiungere il Guatemala, dove sono stati improvvisati centri di accoglienza.
Lo scorso ottobre, Padre Marcelo Pérez, sacerdote cattolico, è stato assassinato dopo aver celebrato una messa a San Cristóbal de las Casas, Chiapas. Nonostante vivesse sotto protezione a causa di precedenti minacce di morte, due uomini su una motocicletta sono riusciti ad avvicinarsi e a sparare al veicolo in cui si trovava. Di origine indigena, Padre Marcelo era un noto difensore dei diritti dei più deboli e aveva tentato di mediare tra una banda criminale e un gruppo di vigilantes per porre fine alla violenza. Solo un mese prima della sua morte, aveva rilasciato un’intervista definendo il Chiapas come una “bomba a orologeria”.