L’esito positivo dei negoziati di pace in corso a vari livelli, diretti e incrociati, fra Russia, Ucraina, Stati Uniti ed Europa, dipende da molti fattori: uno di questi, tra i fondamentali, è la fiducia reciproca, senza la quale è impossibile raggiungere un risultato condiviso da tutti. Al momento a dominare il processo delle trattative è però ancora la diffidenza, che ha la sua ragion d’essere ben radicata nel passato più o meno recente nelle relazioni tra tutti gli attori in campo. Sebbene l’arrivo di Trump alla Casa Bianca abbia dato un’accelerazione alla prospettiva di riavvicinamento tra USA e Russia, anche al di fuori del contesto ucraino, e tra Washington e Kiev siano in corso trattative concrete nell’ambito dei rapporti bilaterali, che avranno ricadute sull’intero quadro dei rapporti transatlantici europei, lo scetticismo reciproco permea le rispettive tattiche.
Zelensky non si fida della mano tesa, o presunta tale, di Putin, il Cremlino dubita che Ucraina e Unione Europea abbiano abbandonato davvero l’obbiettivo della sconfitta finale strategica di Mosca, e nessuno crede che Trump sia un avversario o un partner sincero e affidabile nei propri confronti. Il rebus della fiducia è complicato da risolvere, appunto perché nello scorso decennio l’attendibilità non è certo stata la qualità maggiore espressa nel tentativo di ripianare il conflitto esploso nel 2014. Gli accordi di Minsk, siglati nel febbraio del 2015 e che avrebbero dovuto condurre alla pacificazione, sono stati ampiamente disattesi su tutti i fronti e il loro fallimento ha portato di fatto all’estensione della guerra su vasta scala, cominciata con l’invasione russa nel febbraio del 2022.
Il fallimento degli accordi di Minsk
Dopo il cambio di regime a Kiev con la rivoluzione di Euromaidan, seguita dall’annessione della Crimea da parte russa nel marzo del 2014 e dall’avvio dell’operazione antiterrorismo (Ato) del governo di Kiev nell’aprile dello stesso anno, per riportare sotto controllo le regioni separatiste di Donetsk e Lugansk, l’intervento militare russo è sfociato nel 2015 all’intesa di Minsk, sottoscritta da Putin, dall’allora presidente ucraino Poroshenko e da parte europea dalla cancelliera tedesca Merkel e dal capo di stato francese Hollande. Gli Stati Uniti, sotto la presidenza Obama, hanno quindi da un lato lasciato la responsabilità politica di mediazione all’Europa, dall’altro hanno proseguito a supportare più o meno sottotraccia l’Ucraina, mettendo in conto la possibile escalation.
I tredici punti degli accordi di Minsk, divisi sostanzialmente in un capitolo militare e in uno politico, si sono trasformati in carta straccia perché la Russia ha continuato a premere sulla linea di contatto; perché l’Ucraina, prima con Poroshenko e poi con Zelensky dal 2019, non ha adempiuto alle misure previste di decentralizzazione e autonomia nei confronti degli oblast indipendentisti; perché Francia, Germania e Unione Europea hanno mancato nel far pressione costante su Mosca e Kiev per il rispetto dei patti; e infine perché appunto gli USA, da Obama a Biden, passando per il primo mandato di Trump, hanno perseguito in primo luogo propri interessi, alimentando la proxy war, la guerra per procura, anziché tentare di evitare la catastrofe. Per sette anni Russia, Ucraina, Stati Uniti ed Europa hanno strutturato le loro relazioni intorno agli accordi di Minsk, mai fidandosi tra di loro e scaricando le colpe del fallimento progressivo l’uno sull’altro.
Verso la pace duratura?
Dopo oltre tre anni di guerra, caratterizzati da episodi in cui la fiducia, non solo ovviamente tra avversari, ma anche tra alleati, non è mai stata incrollabile, anche sul versante occidentale e anche già con i rapporti spinosi tra Zelesky e Biden, è evidente che il processo di pacificazione duratura non potrà seguire le tracce dell’intesa di Minsk, ma dovrà essere costruito su basi molto più solide ed affidabili. Per questo è necessaria la partecipazione degli USA, il supporter principale dell’Ucraina, senza i quali non sarà possibile la realizzazione di una nuova architettura di sicurezza postbellica in Europa. Il nodo non sta appunto in una tregua momentanea, breve o lunga, come quella tra il 2015 e il 2022, ma in negoziati che sfocino in un vero e proprio trattato di pace valido per i prossimi decenni.
In questi primi due mesi di trattative, da quando a metà febbraio vi è stato il primo contatto diretto tra il Cremlino e la Casa Bianca il muro della diffidenza reciproca è rimasto comunque alto: proprio per quel che riguarda il ruolo degli Stati Uniti, sia con il disgelo fra Putin e Trump ancora in fase embrionale e ricco di incognite, ma soprattutto con i dubbi accresciuti di Zelensky verso il più importante alleato dell’Ucraina che pare ora intenzionato a tirarsi forse fuori dai giochi nel caso un deal alla sua maniera risultasse impraticabile. Dato per scontato il sospetto congenito nelle storia dei rapporti fra Russia e USA, quello tra Kiev e Washington è il primo fattore di rischio interno, che coinvolge a fianco dell’Ucraina anche l’Unione Europea, che deve essere così superato completamente nel futuro prossimo, in vista di un rafforzamento dell’alleanza occidentale e dei negoziati per la fine definitiva della guerra.

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Telegiornale 20.04.2025, 12:30